Bollettino Quotidiano Della Pace
Pubblicata in data 04/09/2005

Sommario di questo numero:
1. Una cosa
2. Rosa Calipari: Non avremo pace senza giustizia
3. Vincenzo Di Benedetto ricorda Sebastiano Timpanaro
4. Ferruccio Gambino presenta "Rivoluzione industriale e classe operaia in
Inghilterra" di Edward P. Thompson
5. La "Carta" del Movimento Nonviolento
6. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. UNA COSA
Nei prossimi giorni e nelle prossime settimane si svolgeranno in Italia
molte iniziative per la pace e la giustizia: la marcia Perugia-Assisi,
convegni, seminari, conferenze, altre manifestazioni ancora. Ed e' certo
cosa buona e giusta. Ma tutte queste iniziative rischiano di fermarsi al
livello della proclamazione, della predicazione, quando non addirittura
dello spettacolo, o del narcisismo.
In Brasile invece tra un mese e mezzo si produrra' un fatto. Storico. La
popolazione infatti e' chiamata a pronunciarsi in un referendum di
importanza diremmo addirittura epocale: un referendum che chiede se si
voglia proibire il commercio delle armi.
Una sconfitta sarebbe un dramma per tutti, ma una vittoria sarebbe un fatto
politico e culturale di portata immensa, e una speranza per l'umanita'
intera.
Le persone che in Brasile sono impegnate a diffondere informazione e
sensibilizzazione affinche' vinca il "si'" al divieto del commercio di
strumenti di morte hanno ragioni formidabili ma mezzi scarsi; viceversa
l'industria armiera e la lobby degli uccisori dispongono di ingenti risorse
economiche e di una conseguente forte capacita' di manipolazione
dell'opinione pubblica, anche se il loro scopo e' il piu' ripugnante che
possa esservi: che gli omicidi continuino.
Questo referendum riguarda tutta l'umanita', ed e' una prima grande
occasione per cominciare davvero il disarmo dal basso. Per questo e'
necessario che tutte le persone di volonta' buona che in qualunque parte del
mondo abbiano la possibilita' di dare una mano, ebbene, lo facciano. Adesso.
Diffondendo l'informazione e la sensibilizzazione, mettendo a disposizione
risorse.
Vincere il referendum per proibire il commercio delle armi in Brasile
avrebbe come effetto immediato la salvezza di tante vite umane, e
indicherebbe una via a tutto il mondo, paese per paese, fino a liberare
l'umanita' dalle armi assassine.
Per sostenere la campagna per il "si'" al referendum brasiliano per vietare
il commercio delle armi, si puo' contattare Francesco Comina in Italia
(e-mail: f.comina@ladige.it) e padre Ermanno Allegri in Brasile (sito:
www.adital.org.br).

2. TESTIMONIANZE. ROSA CALIPARI: NON AVREMO PACE SENZA GIUSTIZIA
[Riproduciamo la testimonianza di Rosa Calipari pubblicata nel volume di AA.
VV., Nicola Calipari ucciso dal fuoco amico, Nuova iniziativa editoriale,
Roma 2005, in questi giorni in edicola in supplemento al quotidiano
"L'Unita'".
Rosa Calipari e' la moglie di Nicola Calipari.
Nicola Calipari, nato a Reggio Calabria, laureato in giurisprudenza, con una
straordinaria e prestigiosa esperienza nelle forze dell'ordine con ruoli di
grande responsabilita' nella lotta contro il crimine, da due anni
funzionario del Sismi, e' l'eroe che ha salvato la vita a Giuliana Sgrena,
come gia' prima alle due Simone; e' stato ucciso il 4 marzo a Baghdad]

3 Marzo 1983 - 4 marzo 2005: due date che segnano l'inizio e la fine di un
progetto di vita condiviso. Ventidue anni sono pochi per chi ha programmi,
ideali e valori comuni; sono pochi per chi rimane ed e' travolto in poche
decine di secondi da un incubo senza fine.
Non e' possibile dimenticare la sera del 4 marzo quando al rientro a casa ho
trovato ad attendermi alcun colleghi ed amici di Nicola. Una scena che si
affaccia spesso alla mente di chi ha vissuto con un funzionario di polizia
"operativo" ma che si tende a rimuovere per difesa e per non farsi
sopraffare da un'angoscia paralizzante. Con orrore ho urlato il mio "No!" di
fronte a cio' che intuivo essere la verita' ma che nessuno dei presenti era
in grado di confermarmi. E poi: "Ucciso dagli americani, un incidente... Non
si sa cosa e' successo".
Attonita da quella sera continuo a pormi sempre la stessa domanda:
"Perche'?", ancor piu' dopo gli esiti contrastanti raggiunti dal Gruppo
investigativo congiunto italo-statunitense, incaricato di esaminare la
dinamica dei fatti accaduti il 4 marzo.
Un'indagine che se negli intenti doveva svolgersi congiuntamente di fatto ha
portato alla pubblicazione di due relazioni. Molti i limiti e le restrizioni
incontrati dai rappresentanti italiani. Vincoli allo svolgimento delle
indagini sono, innanzitutto, derivati dall'esclusiva applicazione della
normativa statunitense, Army Regulation 15-6, che disciplina le procedure e
le modalita' per le inchieste nell'ambito dell'esercito Usa, e che, come
risulta dal rapporto italiano, ha posto dei limiti non trascurabili rispetto
a quanto previsto dall'ordinamento italiano per analoghe attivita'. Per
quanto attiene, ad esempio, alle modalita' di acquisizione delle
testimonianze, non potevano essere reiterate le domande ai testimoni gia'
sentiti e non sono stati possibili confronti diretti, per non voler
sottolineare che le domande dei rappresentanti italiani potevano essere
poste ai testimoni solo tramite il generale Vangjel, l'ufficiale
statunitense incaricato, gia' prima dell'arrivo della delegazione italiana,
di svolgere indagini.
Ulteriore elemento di rilevante limitazione per l'indagine congiunta e'
stato il mancato "congelamento" del luogo nell'immediatezza della sparatoria
che, come dichiarato dagli stessi militari Usa, e' stato completamente
ripulito ed alterato mentre non si consentiva agli italiani, presenti a
Baghdad quella sera del 4 marzo, di arrivare sul posto. Ma neanche
successivamente, durante i lavori della Commissione congiunta, e' stato
possibile ricostruire la scena del "crimine", poiche' le autorita' militari
Usa hanno ritenuto inopportuno, in ragione del segnalato costante e grave
pericolo che incombe in prossimita'del luogo dell'"evento", anche il
sopralluogo notturno. Pertanto, manca la certezza sulla ricostruzione della
dinamica dei fatti. Tutto cio' non ha, inoltre, consentito di svolgere
un'analisi approfondita sul posto, per cui quanto risultato dalla perizia
effettuata in Iraq sulla vettura - come emerge dal Rapporto italiano - non
sembra avere quella decisiva rilevanza probatoria.
E ancora: la rimozione ed eliminazione dei bossoli, la non preservazione
delle armi e delle munizioni del reparto coinvolto nel fatto... e, ancora il
rientro dell'autovettura, ormai di proprieta' dello Stato italiano, solo
dopo due mesi...
*
E' un percorso difficile, doloroso e straziante per chiunque dover
affrontare la tragica perdita del proprio compagno, ma diventa ancor piu'
arduo se questa avviene in tale contesto e con questa modalita'.
Nicola era un dirigente del Sismi, un Servizio alleato degli americani, ed
ha agito in nome e per conto dello Stato italiano. Non era un Rambo ne' uno
007 con licenza di uccidere, ma un uomo che in altre delicate operazioni
aveva dimostrato di possedere le qualita' per negoziare anche con gli
elementi piu' integralisti del contesto mediorientale. Dotato di notevole
intuito, riflessivo ed osservatore affrontava le situazioni con lucida
razionalita', con notevole self-control e con forte determinazione.
Consapevole dei rischi insiti nei diversi incarichi ricoperti consigliava la
prudenza ai suoi collaboratori e vagliava i costi ed i benefici di ogni
opzione. Nicola, anche nella sua precedente carriera in Polizia, ha sempre
improntato il suo stile al confronto con gli altri e non allo scontro, "a
prevenire, e non a reprimere", diceva. Anche nel rapporto con i suoi
collaboratori prediligeva la politica del consenso piuttosto che dell'ordine
impartito, dell'affermazione pacata ma autorevole della sua opinione e non
autoritaria anche se si assumeva sempre la piena responsabilita' delle
proprie decisioni. Uno stile che, spesso, spiazzava gli avversari ma che
creava coesione e rafforzava l'identita' di gruppo in coloro che lavoravano
al suo fianco. Un particolare pensiero va con affetto alla "squadra di
Nicola", ai "calipariani", come qualcuno li definisce all'interno del
Servizio forse proprio a voler differenziarne lo stile umano e di lavoro.
*
Era certamente nota agli americani la sua partecipazione e collaborazione
anche ad altre vicende di sequestri avvenute sul territorio iracheno; ed
anche in questo caso della giornalista italiana rapita, pur in assenza di
una espressa comunicazione formale ai comandi militari Usa del motivo della
missione, Nicola e la sua squadra, come molte altre volte, hanno richiesto
l'autorizzazione per atterrare all'aeroporto di Baghdad, per poter
alloggiare a Camp Victory e, muniti di tesserini identificativi e di armi,
per i loro successivi spostamenti nella capitale irachena.
Nicola ha non solo condotto a termine la sua missione, la liberazione di
Giuliana Sgrena, ma ha anche sacrificato la sua vita per proteggerla dal
"fuoco amico" e, proprio per rispettare quella bandiera nella quale e'
tornato avvolto da Baghdad, continuo a chiedere con forza e determinazione
la verita' su quanto e' realmente successo e di far luce sulle
responsabilita' di coloro che direttamente o indirettamente ne hanno causato
la morte.
Non e' possibile avere pace se non c'e' giustizia.

3. MEMORIA. VINCENZO DI BENEDETTO RICORDA SEBASTIANO TIMPANARO
[Da "Athenet on line. Notizie e approfondimenti dall'Universita' di Pisa",
n. 6, maggio 2002 (sito: www.unipi.it), riprendiamo questa commemorazione.
L'articolo e' accompagnato dalla seguente nota redazionale: "Dopo le
celebrazioni che l'Universita' e l'intera citta' di Pisa hanno dedicato a
Sebastiano Timpanaro jr. nel novembre del 2001, abbiamo voluto ricordare il
grande filologo con una sentita testimonianza del professor Vincenzo Di
Benedetto, che con lui ha condiviso un'intensa esperienza umana, politica e
culturale. L'uomo e l'intellettuale estraneo alle logiche accademiche,
l'amico e il maestro: sono tante le sfaccettature che emergono da questo
articolo e tutte confermano il ruolo fondamentale che Timpanaro ha rivestito
nella storia recente di Pisa".
Vincenzo Di Benedetto e' docente di letteratura greca presso l'Universita'
di Pisa, Tra le opere di Vincenzo Di Benedetto: Guida ai Promessi Sposi,
Rizzoli, Milano 1999; per Rizzoli ha curato edizioni delle Baccanti, della
Medea e delle Troiane di Euripide.
Sebastiano Timpanaro, nato a Parma nel 1923, studioso di filologia classica,
della cultura dell'Ottocento, di questioni inerenti al materialismo e il
marxismo, ma anche alla linguistica ed alla psicoanalisi; uno dei piu' acuti
interpreti di Leopardi e dei piu' rigorosi intellettuali della sinistra
italiana; e' deceduto nel novembre 2000. Opere di Sebastiano Timpanaro:
segnaliamo almeno La filologia di Giacomo Leopardi, Le Monnier, Firenze
1955, poi Laterza, Roma-Bari 1978, 1997; La genesi del metodo del Lachmann,
Le Monnier, Firenze 1963, poi Liviana, Padova 1981; Classicismo e
illuminismo nell'Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, 1969, 1988;
Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 1975, poi Unicopli, Milano 1997;
Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ets, Pisa 1982; Il
lapsus freudiano, La Nuova Italia, Firenze 1974, poi Bollati Boringhieri,
Torino 2002; Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nistri-Lischi,
Pisa 1980; La "fobia romana" e altri scritti su Freud e Meringer, Ets, Pisa
1992; Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995; segnaliamo
anche particolarmente la sua traduzione di Cicerone, Della divinazione, e
quella di Holbach, Il buon senso, ambedue presso Garzanti, Milano
rispettivamente 1985 e 1988, con vasto ed eccellente suo apparato critico]

Mentre mi appresto a scrivere di Sebastiano Timpanaro, mi si ripresenta alla
memoria l'immagine di un giovane quarantenne, alto, sempre vestito di
grigio, con un irremovibile basco. Questa immagine si associa a quella di un
bar, un bar nella zona della Sapienza che allora si chiamava "Il
Battellino". Mi riferisco ai primi anni '60, gli anni del Vietnam e dei
primi grandi movimenti studenteschi. Ed eccolo la', Sebastiano, in mezzo
agli studenti e gli assistenti che subito dopo mangiato prendevano il
caffe'. Sebastiano veniva da casa sua, in via San Paolo a Ripa d'Arno, dove
abitava con sua madre, e si vedeva che era contento di stare con i suoi
giovani amici. Compariva dal lungarno, dopo un percorso non brevissimo,
passando per il ponte Solferino, ancora a tre arcate. Arrivava, con il suo
passo lungo, e raggiungeva gli altri, in gruppo. All'interno del
"Battellino" capitava spesso di sentir parlare di varianti, di stemmi
tripartiti o bipartiti, della corrente di Basso o di quella di Vecchietti,
di leggi fonetiche, e di altre cose simili. Sebastiano e i suoi amici piu'
stretti, non andavano a sedersi davanti all'Ussero, avevano l'impressione
che fosse snob. E non si sedevano nemmeno sulle spallette dell'Arno, in un
atteggiamento troppo sportivo. Camminavamo, e si parlava, si confrontavano
opinioni. La guida indiscussa era lui. Sebastiano Timpanaro. Il nostro
sentimento nei suoi confronti era semplicemente di devozione.
*
Sebastiano era iscritto al Partito socialista. Era filologo classico. Sapeva
il latino come pochissimi al mondo l'hanno mai saputo. Era figlio di
studiosi di altissimo livello. Realizzava in se' un tipo di intellettuale
semplicemente straordinario, per impegno nello studio, per la vastita' della
sua cultura, per la varieta' degli interessi, per le scoperte che faceva,
per l'alta intelligenza che traspariva dai suoi occhi: occhi chiari, mai
inquieti, che accoglievano il dolore, ma non lo stupore o la protesta,
sentimenti - questi ultimi - che venivano per cosi' dire anticipati dalla
intellezione del reale. Molti dotti da varie parti del mondo venivano a Pisa
per conoscerlo. Si guadagnava da vivere facendo il correttore di bozze.
*
Sebastiano Timpanaro non fu professore universitario, anche se era
universalmente riconosciuto che egli possedeva ad abundantiam i requisiti
scientifici per un compito del genere.Insegno' invece in scuole al livello
della cosiddetta media inferiore, ma per pochi anni, poi smise. La ragione
consisteva nel fatto che egli aveva serie difficolta' a parlare in pubblico.
Eppure egli a Pisa esercito' un magistero didattico di altissima qualita' su
molti giovani studenti e giovani studiosi. Partecipava ai seminari alla
Scuola Normale, i famosi seminari che fra gli anni '50 e gli anni '60
diedero alla nostra citta' una posizione di spicco per gli studi
sull'antichita' e sui metodi di ricerca attivati in questo campo. Sia pure
in modo non sistematico Sebastiano era spesso presente ai seminari di
Augusto Campana, di Eduard Fraenkel, e di Arnaldo Momigliano (e anche a
quello di Scevola Mariotti su Nevio); ma non prendeva mai la parola e non
gli venivano rivolte domande: per un esplicito patto nel caso di Fraenkel,
per una intesa informale - credo - negli altri casi. Ma Sebastiano
interveniva frequentemente alle discussioni che si facevano dopo che la
lezione era finita e il professore era andato via. Capitava percio' che
Sebastiano aggiungesse considerazioni sue o anche esprimesse rispettoso
dissenso e correggesse i risultati a cui si era giunti nel corso della
lezione ufficiale. Gia' in questo si manifestava il suo magistero.
Ma, a parte i seminari, erano i discorsi che Sebastiano faceva in piccoli
gruppi, e - ancora di piu' - i colloqui personali a due lo strumento
privilegiato attraverso il quale egli svolgeva la sua attivita' didattica.
Leggeva anche gli elaborati e dava pareri e consigli. Colpiva il fatto che
egli metteva alla pari - quando lo meritava - l'idea suggerita da una
matricola ed eventualmente quella gia' nota di un filologo famoso. Molto di
questa attivita' si svolgeva all'aperto. "Riprendiamoci la citta'" era uno
slogan di quegli anni. Sebastiano l'aveva gia' messo in atto. Capitava
spesso che lo si incontrasse per le strade di Pisa, anche di sera, dopo
cena. Il suo insegnamento non era istituzionalizzato. Non gli avevano
assegnato un'aula per le sue lezioni. E lui si riservo' uno spazio molto
piu' grande: le strade di Pisa.
*
Mi scrive Sebastiano nella lettera del 3 gennaio 1986: "Anch'io, non meno di
te e probabilmente piu', sento di dovere moltissimo alla tua amicizia, alle
lunghe conversazioni pisane, alle nostre passeggiate che finivano dinnanzi a
due tazze di camomlla. Bei tempi! O meglio, tempi anche quelli tutt'altro
che privi di ansia, nevrosi, infelicita'; ma per me, intersecati da momenti
di allegria, mentre ora sto invecchiando in una specie di perpetuo
grigiore". E nella lettera del 17 aprile 1990: "Non dimentico i nostri
quotidiani scambi d'idee, le nostre passeggiate serali con bevuta finale di
camomilla". Ed ecco un altro quadro ben delineato nella mia mente.
Sebastiano ed io seduti davanti al bar "Gambrinus", molto vicini al bordo
esterno del marciapiede, oggi non sarebbe possibile, ma allora il traffico
non era cosi' invadente, e con un po' di impegno mentale ci si poteva
astrarre da esso. Erano bei pomeriggi di tarda primavera, lui si sedeva con
alle spalle la stazione ferroviaria. Io di fronte a lui. Questo avveniva -
credo - soprattutto il primo anno della mia amicizia con Sebastiano. Aveva
molte cose da dirmi, e io altrettanto da imparare. Scelse una via originale.
Raccontava se stesso, cioe' mi spiegava passo passo le ricerche che compiva,
mostrando i punti difficili, gli snodi piu' problematici. E successivamente,
a distanza di tempo, mi diceva in che modo ne era venuto a capo. Questo,
intorno al 1960. Ma proseguirono sempre le lunghe, dotte passeggiate serali.
Quasi sempre per la strada, anche noi. Io ho avuto la fortuna di fruire di
una frequentazione straordinariamente fitta con Sebastiano. E' un poco
esagerato, ma non del tutto, dire - come fa Timpanaro nel pezzo di lettera
sopra riportato - che i nostri scambi di idee fossero "quotidiani".
Certamente, pero', ci vedevamo parecchie volte la settimana (a parte le
vacanze accademiche, quando tornavo a Saracena). E questo, sempre, dal 1960
al 1967. Avverto pero' che sarebbe sbagliato ipotizzare un rapporto
esclusivo. Sebastiano aveva contatti stretti con altri giovani o meno
giovani pisani.
Capitava anche che in un gruppetto piu' ristretto si giocasse a carte, o
subito dopoo pranzo o dopo cena. Gico preferito, scopone scientifico, in
quattro; risaputa la sua estrosa teorizzazione secondo cui la coppia che da'
carte deve - in quanto interessata a non sparigliare - ispirarsi al
classicismo di Pietro Giordani, e per converso la coppia che riceve deve
ispirarsi alla Lettera semiseria di Berchet. Sebastiano e io accettammo una
volta incautamente la sfida di due fisici, con bottiglia di spumante come
premio; fummo stritolati. Sebastiano era amico di moltissime persone, in
vari ambienti. Non faccio nomi, con una sola eccezione. Bruno Tallini era un
normalista "scienziato", "un democratico de Formia" (come lui stesso si
definiva e la formulazione piaceva molto a Sebastiano), un ragazzo alto e
schietto, che giovanissimo fu rapito dalla morte; e Sebastiano mi confido'
che ne aveva sentito il dolore che puo' provare un padre che perde suo
figlio.
*
Il lavoro intellettuale comporta ovviamente una componente di fruizione: il
piacere di risolvere una difficolta' che ti ha tenuto impegnato per un certo
tempo, e il piacere di apprendere dati nuovi o addirittura nuove tecniche di
ricerca, ed e' gratificante anche stabilire un contatto con altri studiosi
che si occupano degli stessi problemi, oltre alla soddisfazione di veder
riconosciuto da altri il proprio lavoro. Sebastiano sperimento' ovviamente
queste situazioni, e per cio' che riguarda l'ultimo punto, i riconoscimenti
furono tali che pochi ne ebbero altrettanti. Ma c'e' anche un aspetto del
lavoro intellettuale che non si qualifica come fruizione. Sebastiano
conosceva anche il lavoro intellettuale come fatica, quando il cervello e'
sollecitato troppo e si creano situazioni di irrequietezza e di stanchezza,
e si incomincia a girare a vuoto. Sebastiano aveva chiara la mappa del suo
ingegno e delle sue possibilita' di lavoro. Mi parlava del disagio che gli
procurava il caldo che preannuncia l'estate.
Egli era orgoglioso di avere scoperto un mezzo per rimuovere situazioni di
blocco, quando ti sembra di avere tutto chiaro nella mente e pero' la pagina
resta ossessivamente bianca. E allora andava alla stazione. Io non l'ho mai
visto, ma mi disse che piu' volte egli era andato alla stazione e si sedeva
a un tavolino (non ricordo se nel bar o - piu' probabilmente - nella sala di
aspetto) e lo stare in mezzo alla gente e vedere cose diverse dalle solite
gli forniva l'impulso per superare il blocco e riprendere a scrivere: sul
tavolino delle ferrovie dello stato. C'era poi una tecnica che non era
propriamente originale, ma Sebastiano mi assicurava che qualche volta lui
l'aveva sperimentata con successo: contrapporre a un motivo di disturbo (non
evidentemente di tipo fisico, ma preoccupazione, timore, e simili) un altro
motivo di disturbo che attiri l'attenzione e tolga il suo habitat al primo.
E poi, in questo giocare a rimpiattino con la propria psiche: Livorno.
Prendere il pullman e andare a Livorno, e passeggiare e confondersi con la
gente che non ti conosce, e sentire voci diverse, e in piu' - il che non
guasta - avere la soddisfazione di essere in una citta' rossa. E poi,
tornare con rinnovato impulso al lavoro. Quando seppe che anch'io di mia
iniziativa andavo a Livorno per la stessa ragione, facemmo il patto che se
ci fossimo incontrati non ci saremmo riconosciuti e ognuno avrebbe mantenuto
l'anonimato.
Per altro avevamo in comune un atteggiamento di ripulsa per un divertimento
popolare. La giostra. Arrivava alla Cittadella, quasi un flagello,
all'improvviso, e il frastuono durava per intere settimane. Ma a questo
proposito Sebastiano metteva in atto una maliziosa strategia di autodifesa:
aspettava che anche io (che abitavo a un numero pari di via Lavagna e la
stanza interna - quella buona per lavorare - era rivolta a nord) mi
lamentassi e poi quasi per gioco si compiaceva con me di essere riuscito a
resistere meglio e da questo traeva maggiore capacita' di impegno nel
lavoro.
*
Di che cosa parlavamo stando cosi' tanto insieme? E' chiaro che non si
poteva parlare sempre degli aspetti dell'azione verbale oppure della legge
di Wackernagel sui composti. D'altra parte non capitava mai che ce ne
stessimo tutti e due zitti, pensosi sulle sorti dell'umanita' nelle ere
venture. Parlavamo certo degli studi che facevamo.
Ma anche di cose varie, anche - per esempio - delle cose che ci capitavano e
degli sviluppi che esse lasciavano prevedere, a livello di ansia e di
timori. Senonche' a questo proposito incideva il fatto che Sebastiano avesse
dieci o undici anni piu' di me, e percio' non c'era reciprocita' di
comportamento. Lui era pronto a razionalizzare le situazioni che
riguardavano me, ma di se stesso parlava dopo aver gia' messo in atto un
filtro che impediva l'effusione emotiva. Mi accorsi che quando parlava con
coetanei usava un registro diverso.
Parlavamo anche di altre cose. Mi e' capitato di leggere un elogio della
purezza di Sebastiano Timpanaro. Spesso il termine "puro" si trascina una
risonanza sgradevole, nel senso di una frustrante mancanza di contatti
eterosessuali. Sono in grado di affermare che Sebastiano provvedeva con
sistematicita' a rifiutare nei fatti questa purezza e inoltre che di questo
rifiuto me ne parlava. Questi ricordi si riferiscono al periodo tra il 1960
e il 1962.
E parlavamo tanto, tantissimo di politica. Nell'impegno politico di
Sebastiano giocavano varie componenti. Era importante la tradizione
familiare, in particolare l'esempio che gli veniva da sua madre. Ma c'erano
anche motivazioni di altra natura.
Sebastiano non si rassegnava al gia' accaduto, non riconosceva la
definitivita' di quello che si chiama talvolta il verdetto della storia. In
questo opporsi all'accaduto c'era qualcosa di eroico. Questo valeva nella
ricerca storico-filologica: a proposito di coloro che hanno anticipato in
punti significativi quel metodo di ricognizione della tradizione manoscritta
che veniva definito come metodo del Lachmann, a proposito della paternita'
di una congettura che magari tocca invece a Leopardi, a proposito di uno
studioso poco considerato come il Gervasoni.
E la storia per lui era una nozione ampia che comprendeva - all'indietro -
un tempo lontano quando ancora non c'era la vita organica, contrassegnata
dal nascere e morire. Rispondendo a una mia lettera, Sebastiano scriveva in
data 30 settembre 1986: "e' molto vero, e non vale, ovviamente, solo per mia
madre, che si rimane addolorati e intimamente 'renitenti' nel vedere
un'attivita' intellettuale o pratica brutalmente interrotta dalla morte. In
effetti, io credo che la morte debba essere, ovviamente, subita come tutto
cio' che e' ineluttabile, ma non possa essere giustificata, ne' dalla
religione ne' dalla filosofia che spesso e' solo una 'religione per le
persone colte e raffinate'. E talvolta penso che meglio sarebbe stato se
nell'universo non fosse mai incominciata la vita e avesse continuato ad
esserci solo la materia inorganica".
Il rifiuto dell'accaduto si associa, in queste enunciazioni, a una struttura
concettuale che si qualifica come utilitaristica, ma ha un risvolto
profondamente etico. In questo contesto Timpanaro rifiuta un collegamento
con la cultura in quanto fenomeno di distinzione sociale. E naturalmente
Timpanaro non accettava il verdetto della storia nemmeno per cio' che
riguarda la distribuzione della ricchezza e la fruibilita' dei beni secondo
le varie classi sociali. Timpanaro aveva - ovviamente - letto e assimilato i
testi marxisti (mi raccontava che una volta, aveva tenuto a un gruppetto di
amici una serie di "lezioni" serali sul Capitale, letto "a puntate"), ma la
sua impostazione di base andava al di la' del marxismo.
E c'era un altro aspetto della questione. Lui, l'intellettuale realmente
raffinato, ma nell'intimo, e non come manifestazione esteriore, aveva con la
ricerca, proprio perche' gli riusciva bene, un rapporto gratificante. E di
questo egli si sentiva come in debito con coloro che, per ragioni di classe,
ne restavano esclusi. E percio' nel suo impegno politico lui si compiaceva
di fare anche lavori manuali, incollare manifesti (ci teneva a dirmi che era
diventato molto bravo a dare pennellate larghe e rapide, risparmiando molta
colla) e distribuire volantini. E poi, ma si tratta di una considerazione
aggiuntiva, c'era forte in Sebastiano l'esigenza che il lavoro intellettuale
avesse uno sbocco operativo. Interveniva a questo proposito la nozione di
politica culturale. Scrivere e pubblicare cose scientificamente valide era
ovviamente irrinunciabile, ma questo non bastava. Si trattava di indirizzare
i lettori e i possibili nuovi ricercatori verso linee di ricerca o di
interesse che si ritenevano piu' produttive, e anche piu' in sintonia con
esigenze - in ultima analisi - politiche. Era un equilibrio difficile. Ma
Sebastiano non rinunzio' mai al principio. Certo il nesso che e' presupposto
in Storia come pensiero e come azione a Timpanaro sembrava inadeguato, in
quanto mancava il dato del mettere in discussione la storia. E cio' spiega
la sua poca affezione nei confronti della dialettica hegeliana.
In effetti, anche a livello piu' immediato, Timpanaro sentiva fortemente il
fascino di quella che si suole chiamare (impropriamente) cultura popolare.
Gli piaceva moltissimo la scritta che personalmente aveva letto come
indicazione programmatica in una Casa del Popolo, nella zona verso Riglione:
"volere e potere". La mancanza dell'accento sulla "e" secondo Sebastiano non
era veramente un errore. Essa rifletteva una concezione materialista, nel
senso che la volonta' e' fortemente condizionata da fattori esterni: al
contrario di un volontarismo reazionario che nega ogni condizionamento, nel
mentre i condizionamenti sono la base dei suoi privilegi. Parlava con vera
simpatia dei religiosi che in Sicilia si erano messi con Garibaldi. Don
Giovanni Verita' gli era caro. Un Dio capace di fare il bene degli uomini
Timpanaro non lo avrebbe rifiutato: "Non sono in grado - mi disse una
volta - di dimostrare la non esistenza di Dio, ma sono in grado di
spogliarlo di tutti i suoi attributi".
*
Quando eravamo ancora nel Psi la domenica mattina capitava che, passeggiando
nel porticato davanti al Gambrinus, ci dedicassimo a una cosa molto
impegnativa: leggere sull'"Avanti" l'articolo domenicale di Pietro Nenni, un
paio di colonne sulla sinistra in prima pagina. Eravamo diventati
bravissimi. Avendo presenti, depositati nella nostra memoria, i precedenti
interventi, eravamo in grado di cogliere il minimo spunto di novita', quando
c'era. Molto veniva subito liquidato come rituale, ripetitivo. Per altro
apprezzavamo gli arcaismi dell'autodidatta, che aveva conosciuto
l'orfanotrofio. Per esempio "Niun dubbio", in posizione incipitaria. Poi
venivano i Comitati centrali. Due o piu' pagine intere. Con il nome
dell'oratore al centro della colonna. Allora per giudicare i singoli
interventi bisognava tener conto anche degli spazi concessi. E chissa',
forse ci poteva essere anche qualche intervento manipolatorio nella
confezione del giornale. In ogni caso Sebastiano era veramente bravo a
prevedere quale posizione avrebbe preso in quella situazione il singolo
esponente politico. "Il suo intervento potrei scriverlo io, in anticipo"
diceva. Ecco un altro flash. Davanti al Gambrinus spesso si vedeva un
cliente, sulla cinquantina, seduto su una delle poche sedie disponibili, nel
tardo pomeriggio: nell'atteggiamento di chi gode di un momento di relax e
non pensa ad altro. Ricordo che Sebastiano una volta me ne parlo', e mi
diede l'informazione: "Pencola", per avvertirmi che sarebbe bastato poco e
lo avremmo portato dal Psi nel Psiup.
*
Ma ormai i ricordi volgono al termine, e le stelle tramontano, e le immagini
diventano sempre piu' diafane, impercettibili increspature del vento che
passa e appena appena ti sfiora. E del Psiup pisano mi limito a riferire il
giudizio conclusivo, da una lettera del 13 agosto 1966, una lettera che mi
rattrista, perche' preannuncia la partenza di Sebastiano e di Maria. Il
trasferimento avverra' nell'aprile del 1967. La sera prima della partenza
cenammo al "la Pace", a un passo dal Gambrinus. Eravamo in quattro. Maria,
Sebastiano, e oltre a me, una giovane loro amica, che io non conoscevo e che
forse Maria e Sebastiano invitarono perche' io la conoscessi. Non l'ho piu'
rivista e non ricordo il nome. Se legge queste pagine, la saluterei
volentieri.
Ecco la parte iniziale della lettera. "Caro Vincenzo, grazie della lettera.
Sono contento di sapere che ti riposi delle fatiche ippocratiche e
senofontee. Mia madre sta molto meglio, anche se ho l'impressione che allo
status quo ante non si ritorni e che abbia bisogno d'ora in poi di maggiori
cure e di maggiore riposo. Ho incominciato (per ora solo a titolo
informativo) a orientarmi sulle possibilita' di trovar casa a Firenze. Pare
che non sia un compito impossibile, anche se gli affitti sono, a quel che
pare, un po' piu' cari che a Pisa (ma non molto). L'idea di andare a stare a
Firenze mi suscita sentimenti contrastanti. Da un lato comprendo che prima o
poi questo trasferimento andava compiuto; dall'altro mi dispiace molto di
lasciare gli amici di Pisa. Speriamo che prossimamente tu ti 'fiorentinizzi'
almeno in parte! L'unico motivo per cui sono realmente contento di andarmene
da Pisa e' costituito dal Psiup, che qui mi sembra destinato anche in futuro
ad essere un teatro di continue risse sempre piu' sterili e cretine. Ieri
l'altro...".
*
Mi accorgo che ancora non ho detto di che cosa parlavamo a livello
scientifico a parte i nostri lavori. Cerco di riparare alla mancanza.
Il problema dell'archetipo per i manoscritti della Divina Commedia. La
sillaba ancipite (o meglio: indifferente) in fine di verso. La dialettica
hegeliana (il problema della compatibilita' con l'effetto soglia). Il
segretario politico nei partiti moderni (solo apparentemente funzione
subalterna). Quando si cancella e' preferibile sovrapporre w e non x. Il
ritorno nel sonno nell'Odissea. Si puo' spiegare solo in termini classisti
Pirandello? In che modo la grande musica puo' trovare riscontro in libretti
insulsi? Cavour e il Trovatore. Vivaldi superiore a Bach? La scelta di Marx
a favore di Balzac sacrifica troppo Zola. Puo' il tipico essere il tratto
specifico del linguaggio letterario? Puo' atteggiarsi a poeta maledetto chi
poi nella vita quotidiana vive in modo ordinario e banale? Gliconeo e
ferecrateo nell'Agamennone di Eschilo.
Il lettore di "Athenet" mi scusera' se io interrompo l'elenco.
*
Qualche volta, prima di morire, voglio andare in via san Paolo, ci manco da
molto tempo, e in fondo a sinistra, suonare il campanello da una porta;
voglio vedere se qualcuno mi risponde. Ciao Sebastiano.

4. LIBRI. FERRUCCIO GAMBINO PRESENTA "RIVOLUZIONE INDUSTRIALE E CLASSE
OPERAIA IN INGHILTERRA" DI EDWARD P. THOMPSON
[Dal quotidiano "Il manifesto" del primo settembre 2005.
Ferruccio Gambino e' docente di sociologia del lavoro all'Universita' di
Padova; ha insegnato negli Stati Uniti e in Francia; e' autore di numerosi
saggi. Opere di Ferruccio Gambino: "Critica del fordismo regolazionista", in
W. Bonefeld (ed.), Common Sense Essays in Post-Political Politics,
Autonomedia, New York; Migranti nella tempesta, Ombre Corte, Verona 2003;
con E. Mingione e F. Pristinger (a cura di), La citta' e il distretto,
Carocci, Roma.
Edward P. Thompson, nato nel 1924, storico, impegnato nella nuova sinistra,
una delle figure piu' rappresentative dei movimenti per la pace degli anni
ottanta, e' scomparso nel 1993. Opere di Edward P. Thompson: Uscire
dall'apatia, Einaudi, Torino 1962; Rivoluzione industriale e classe operaia
in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1969; Societa' patrizia, cultura
plebea, Einaudi, Torino 1981; Protestare per sopravvivere, Pironti, Napoli
1982; (con V. Racek), Diritti umani e disarmo, Centro siciliano di
documentazione, Palermo 1982; Opzione zero, Einaudi, Torino 1983; Whigs e
cacciatori, La Nuova Italia, Firenze 1989; Oi Paz, Editori Riuniti, Roma
1991; Apocalisse e rivoluzione. William Blake e la legge morale, Cortina,
Milano 1996]

In apparenza, anno migliore non avrebbe potuto scegliere il Saggiatore per
pubblicare in italiano il capolavoro di Edward P. Thompson: il 1968. I due
tomi di Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra si
presentavano in solido cofanetto e trattavano di classe operaia, un
argomento, allora, di una certa risonanza; ma il prezzo di copertina era
proporzionale al numero delle pagine e all'eleganza dell'edizione. Il libro
fatico' a farsi largo nella selva di tascabili del tempo, tanto che nella
seconda meta' degli anni '70 fini' nelle rimanenze scontate. E poi, perche'
l'Inghilterra? Non erano la Francia e gli Usa al centro del Sessantotto? La
traiettoria operaia della "prima nazione industriale" appariva lontana
rispetto ai canoni dello sviluppo del proletariato nell'Europa continentale,
cosi' com'era spiegato dai manuali scolastici. Scrive Thompson nella
prefazione: "Io cerco di riscattare dall'enorme condiscendenza dei posteri
il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano
'antidiluviano', l'artigiano e operaio specializzato 'utopista' e perfino il
seguace deluso di Joanna Southcott", domestica campagnola e profetessa di
centomila diseredati. L'opera e' "un gruppo di studi su argomenti collegati"
piu' che "una narrazione consecutiva" degli anni dal 1780 al 1832. Nella
prima parte, Thompson considera "le tradizioni popolari... che influirono
sulla cruciale agitazione giacobina degli anni 1790-1800". Nella seconda
parte passa "dalle influenze soggettive a quelle oggettive - le esperienze
di gruppi di lavoratori durante la rivoluzione industriale". Nella terza
parte riprende "il filo della storia del radicalismo plebeo", e la segue,
"attraverso il luddismo, fino all'eta' eroica al termine delle guerre
napoleoniche". Infine discute "alcuni aspetti della teoria politica e della
coscienza di classe negli anni '20 e '30". Cosi' annunciata, la narrazione
sembra ragionevolmente piana, ma per i lettori italiani andrebbe corredata
da note esplicative e da carte tratte da un buon atlante storico.
*
Superati gli scogli iniziali, la lettura si fa trascinante. Da quale
sorgente sgorga l'impeto della narrazione? E' questa la domanda cruciale di
un testo che ha incoraggiato tanti storici piu' giovani di Thompson a
riportare alla luce le esperienze collettive degli sfruttati, liberandosi
dagli schemi tradizionali. Per rispondere, si puo' cominciare con un
particolare all'apparenza insignificante. Quando nel 1956-'57 Thompson
sviluppa la sua polemica sulla democrazia interna del Partito comunista
britannico contro il Rapporto dei quindici commissari nominati dai vertici,
ci si aspetta che il dissidente dello Yorkshire prenda posizione
richiamandosi infine al principio del centralismo democratico di Lenin.
Thompson spiazza tutti. Cita John Milton e la tradizione democratica
britannica. Da quel momento Thompson si considera un comunista con la c
minuscola (in inglese le iniziali dei sostantivi che indicano l'affiliazione
a partiti e chiese sono maiuscole). Occorre dunque tornare al passato piu'
solitario per guardare oltre il tempestoso futuro che si profila
all'orizzonte. Thompson prevede una traversata del deserto durante la quale
le forme organizzative del movimento operaio passeranno attraverso la
stretta delle ristrutturazioni postcoloniali - un processo che, a giudizio
di chi scrive, e' tuttora in corso.
*
Sono rivelatrici della congiuntura della fine degli anni '50 le pagine che
Thompson dedica ai riallineamenti provocati dalla caduta del
repubblicanesimo giacobino in Inghilterra dopo l'avvento di Napoleone in
Francia e la ripresa delle guerre. Diventa incolmabile il fossato che divide
gli ex-riformatori, ritirati nelle loro cappelle private, dai cospiratori e
dai luddisti negli ultimi dodici anni delle guerre napoleoniche. Thompson ha
il merito perenne di aver dimostrato la complessita' del luddismo, contro le
fandonie di chi aveva ridotto un ampio e articolato movimento al semplice
sabotaggio dei telai meccanici da parte di sparuti gruppi di operai
disperati. Lo spazio pubblico viene rioccupato dai patrioti di tutte le
gradazioni, secondo un copione destinato a ripetersi innumerevoli volte fino
ai nostri giorni. Gran parte dei repubblicani riscoprono i meriti della
Corona, molti recitano il mea culpa e si pentono, diventando piu' realisti -
e antigiacobini - del re. Nel paese trionfano i benpensanti. Con grande
fanfara la guardia armata dei proprietari puo' organizzare i suoi raduni
patriottici. Ma e' al diapason di questo tripudio guerrafondaio che viene
suonata "la nuova nota del radicalismo". Se Napoleone e' un despota, cosa
dire del governo inglese che, secondo la denuncia dell'allora conservatore
William Cobbett, sospende l'Habeas Corpus, incarcera senza processo, compra
giornali e giornalisti, manovra il sistema bancario e il debito pubblico a
suo arbitrio? Questa volta l'indignazione e' particolarmente intensa a
Londra e si esprime con la difesa della liberta' di parola e di stampa da
parte degli artigiani e delle professioni liberali.
Si tratta appunto di un movimento difensivo. Altrove, e in particolare nei
distretti industriali, l'organizzazione diventa clandestina e illegale fino
al ricorso alle armi, giungendo cosi' alla soglia degli anni Venti. Poi,
"demagoghi e martiri" del movimento operaio, come scrive Thompson,
riconquistano lo spazio pubblico; solo cosi' si giungera' alla limitazione
legale della giornata lavorativa. Dunque, non sara' lo stalinismo, cosi'
come non fu Napoleone, a seppellire l'impulso democratico e le lotte di
classe in Europa e negli altri continenti. Ma nella lezione di Thompson si
da' per scontato che per anni e forse per decenni occorrera', un'altra
volta, dare battaglia politica e riconquistare pazientemente l'arena
pubblica facendo a meno di un partito.
Lo studio dei cinquant'anni dal 1780 al 1832 mostra che la classe operaia
non e' (come vorrebbe Perry Anderson e parte della "New Left Review" da cui
Thompson viene estromesso nel 1963) "un proletariato subordinato" prodotto
da "una borghesia supina"; per contro, essa "fu presente al suo 'farsi'",
con "l'intervento attivo dei lavoratori, il grado in cui essi contribuirono,
con sforzi coscienti, al farsi della storia". Coloro che faticavano non
possono essere considerati soltanto come "le miriadi perdute
dell'eternita'". Essi nutrirono, "per cinquant'anni e con fortezza
incomparabile, l'Albero della Liberta'". Ma e' un cinquantennio durante il
quale non esistono comitati centrali, ne' congressi di partito o di
sindacato, ne' tessere, ne' sponde giacobine all'estero, ne' intellettuali,
con la nobile eccezione dello "sbandato" William Blake e di pochi altri,
disposti a rischiare la miseria dei loro piccoli privilegi schierandola
accanto a quella, ben piu' grave, generata dalle nuove fabbriche. In
funzione antioperaia sono talvolta dispiegate piu' truppe che contro gli
eserciti napoleonici. Eppure, alla fine del cinquantennio il proletariato
riesce a imporre la rivendicazione cruciale, una giornata lavorativa
limitata - e quindi la fine della delirante onnipotenza dell'imprenditore.
E' una legge che si affianca all'abolizione della schiavitu' nelle
piantagioni britanniche delle Indie occidentali. Sacrificio, clandestinita',
prigione e forca, ma anche senso di una piu' ampia collettivita' in
formazione e gioia del "co-spirare" sono tra le voci di un processo di
differenziazione di classe e di irradiamento di nuovi atteggiamenti privi di
deferenza, mentre le braccia e le menti passano inesorabilmente nel
laminatoio della grande industria.
La dedizione dei proletari alla causa assume talora toni mistici,
paradossalmente biforcati in atteggiamenti ateisticamente politici o
ferventemente fideistici. Ma in entrambi i casi il risultato sociale si
fonda sulla ricchezza dello sforzo collettivo, non sull'io acquisitivo e
proprietario. Sara' pur vero che il problema per i comunisti non e' quello
dell'alternativa tra altruismo ed egoismo, come affermeranno poi i
preoccupati Marx e Engels ne L'ideologia tedesca, ma il problema e' pur
sempre come vincere. La lezione del cinquantennio e' semplice: fuori dal
collettivo non c'e' possibilita' di vittoria, ne' si puo' sperare nel
salvatore esterno. E' un Thompson sardonico quello che riesce ad attaccare
insieme il sociologo funzionalista Smelser e i burocrati di partito: "La
coscienza di classe, invece, e' un'invenzione malefica di intellettuali
sbandati, perche' tutto cio' che turba l'armonica coesistenza di gruppi che,
come si dice, 'svolgono ruoli sociali' diversi (e che, quindi, ritarda lo
sviluppo economico) e' da deprecare come 'sintomo ingiustificato di
disturbo'". L'armonia non e' certo un segno distintivo degli anni della
formazione della classe operaia in Inghilterra. Gli squilibri e gli
sconquassi sociali si misurano in tutta la loro estensione imperiale, dalla
distruzione della manifattura nel subcontinente indiano al massacro di
Peterloo (1819) da parte dell'esercito e della guardia armata dei
proprietari di Manchester.
*
Limitandosi di proposito all'Inghilterra, Thompson addita destini
universalmente analoghi: il nostro criterio di giudizio non dovrebbe ridursi
al dilemma "se le azioni di un individuo si giustifichino o no alla luce di
sviluppi successivi. Dopo tutto, non siamo noi stessi alla fine
dell'evoluzione sociale. In alcune delle cause perdute degli uomini della
rivoluzione industriale possiamo scoprire lampi di intuizione su mali e
sofferenze della societa', che aspettano ancora d'essere leniti... E'
possibile che delle cause perdute in Inghilterra debbano, in Asia o in
Africa, essere ancora vinte". Non si tratta dell'aspirazione a un mero
ritorno al passato. Piu' che la nostalgia della comunita' dissolta e'
l'impulso a creare rapporti sociali non solo nuovi ma anche diversi -
diversi da quelli della borghesia - a scavare margini di autonomia, a
tentare - sovente invano - di salvarsi dal lavoro notturno, dalla
prigione-manifattura, dalla deportazione nelle colonie.
*
Sull'affresco di Thompson si sono appuntate critiche non peregrine a mano a
mano che si sviluppavano i movimenti della fine degli anni '60 e degli anni
'70. Gia' in un convegno di storici sociali del '73, presente Thompson,
viene lamentata la scarsa attenzione dedicata alle donne nell'opera. Altri
rilievi sono piu' circostanziati. E' senz'altro una svista il fatto che nel
raccontare la fondazione della London Corresponding Society (1792), ossia
l'atto di nascita del dibattito operaio radicale in Inghilterra, Thompson si
dimentichi di Oulaudah Equiano, rapito dai negrieri in Africa occidentale,
schiavo che si e' autoriscattato, scrittore e attivista dell'abolizionismo.
Cosi' spiega Peter Linebaugh, che di Thompson fu studente, nel suo
fondamentale The London Hanged (Penguin, 1991, libro incomprensibilmente non
ancora tradotto in italiano). Ma Linebaugh rammenta pure - a Thompson e a
noi - che negli ultimi decenni del Settecento a Londra vive un proletariato
atlantico: il numero dei soli africani - liberi e schiavi - oscilla tra le
10.000 e le 20.000 persone, circa il 6-7 per cento della popolazione urbana.
A questo punto possiamo riprendere la descrizione di Thompson della riunione
fondativa della London Corresponding Society nella quale si stabilisce un
principio basilare: nessun candidato e' escluso, purche' risponda
affermativamente a tre domande, la piu' importante delle quali suona cosi':
"Sei pienamente convinto che il benessere di questi regni esige che ogni
adulto in possesso della ragione, e non reso incapace da delitti, abbia un
voto per eleggere un rappresentante ai Comuni?".
E' una domanda attuale, che riguarda i diritti politici di milioni di
immigrati in Europa e di circa 170 milioni di immigrati e nel mondo. Dopo
213 anni, forse anche Oulaudah Equiano sarebbe d'accordo che ricominciare da
capo non vuol dire ripartire da zero.
*
Postilla. Uno storico senza cattedra
Edward Palmer Thompson nasce a Oxford nel 1924, figlio di missionari
metodisti che sono vissuti a lungo nell'India di Gandhi e di Nehru ai quali
resteranno legati nella lunga battaglia anticoloniale. Studente di storia a
Cambridge, nel 1942 Edward, con il fratello maggiore Frank, aderisce al
Partito comunista britannico.
Reclutato in un reggimento di carristi e mandato sul fronte italiano, fa a
tempo a notare la Resistenza e gli scioperi del 1944-'45. Nel maggio del
1944 il fratello Frank, capo di un'operazione clandestina britannica di
sostegno alla Resistenza bulgara, viene catturato e fucilato insieme con il
gruppo di partigiani e di contadini bulgari che lo hanno aiutato. E' il
lutto piu' grave nella vita di Thompson, per il quale l'aspirazione a
un'Europa libera dai blocchi sara' indissolubilmente associata alla memoria
del fratello. Dopo il congedo del 1946, Thompson e' volontario nell'opera di
ricostruzione in Jugoslavia. Poi completa gli studi a Cambridge, e dal 1948
al 1965 e' lettore di storia nei corsi liberi (extramural) per adulti
all'Universita' di Leeds.
Ai margini della vita accademica in quanto comunista notorio, con gli
storici di partito Christopher Hill, Eric Hobsbawm, George Rude', John
Saville e Dorothy Towers, la compagna della sua vita, Thompson fonda la
rivista "Past and Present" (1952) che intende fare i conti con la storia
delle classi lavoratrici, oscurata da piu' di trecento anni di un destino
imperiale ormai declinante. Nel 1955 pubblica un lungo studio su William
Morris, e nella primavera del 1956 con John Saville lancia una rivista
ciclostilata, "The Reasoner", in polemica con i vertici del partito. Quando
il Comitato politico del partito ingiunge ai due di chiudere la
pubblicazione, Thompson e Saville persistono. Poi, nell'ottobre-novembre del
1956, dopo lo scoppio dell'insurrezione ungherese e l'invasione sovietica
dell'Ungheria, "The Reasoner" denuncia la repressione. Sospesi dal partito,
Thompson e Saville escono tra i primi. Nel biennio successivo saranno
seguiti da circa diecimila membri, quasi un terzo degli iscritti. Invece di
spostarsi a destra, Thompson con altri pubblica alcuni numeri del
trimestrale a stampa "The New Reasoner" che nel 1960 confluisce nel nuovo
periodico di Perry Anderson e Tom Nairn, "The New Left Review", da cui
Thompson e' estromesso nel 1963 per chiara mancanza di snobismo antioperaio.
Procedendo in direzione opposta, egli attende alla sua opera maggiore The
Making of the English Working Class, la cui prima edizione esce nel 1963
presso l'editore Victor Gollancz. Dopo qualche attacco infastidito in
patria, il volume comincia a essere preso in seria considerazione anche
negli Stati Uniti, in Australia e in Canada, e nel giro di qualche anno si
afferma come il capolavoro di storia sociale di lingua inglese della sua
generazione. Nel 1968 seguono la seconda edizione inglese presso Penguin e
la tempestiva, meritoria traduzione in italiano di Bruno Maffi presso il
Saggiatore, con il titolo Rivoluzione industriale e classe operaia in
Inghilterra, in due volumi, mentre la traduzione francese si fara' attendere
per altri vent'anni (Gallimard-Seuil, 1988).
Nominato professore di storia all'Universita' di Warwick nel 1965, Thompson
abbandona definitivamente l'insegnamento nel 1971 per solidarieta' con il
movimento studentesco e per protesta contro le amministrazioni
universitarie, sempre piu' piegate ai diktat degli industriali, dei
finanzieri e dei faccendieri di stato. Nel 1975 pubblica Whigs and Hunters
(Whigs e cacciatori, La Nuova Italia, 1989) uno studio sulle tensioni
sociali attorno ai terreni comuni nel Settecento inglese, e tre raccolte di
saggi: contro Louis Althusser e la pretesa di esclusiva cosmopolitica della
"New Left Review" (The Poverty of Theory, 1978), sulle prospettive
contemporanee (Writing by Candlelight, 1980), e a favore del disarmo
(Protest and Survive, 1980).
Dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta e' in Gran
Bretagna la voce piu' autorevole e l'ambasciatore piu' attivo del disarmo e
delle campagne antinucleari, sia che arringhi a Trafalgar Square sia che
distribuisca materiale nei chioschi degli antimilitaristi o che si scontri
in pubblico dibattito con il segretario reaganiano alla difesa Weinberger.
In italiano escono i suoi saggi storici (Societa' patrizia, cultura plebea,
Einaudi, 1981), e antimilitaristi (Protestare per sopravvivere, Pironti,
1982, Opzione zero, Einaudi, 1983).
Forse presagendo l'approssimarsi della fine, Thompson rende l'estremo
omaggio alla memoria del fratello Frank e alla sua fatale missione in
Bulgaria del 1944 con uno scritto che e' anche una riflessione sugli usi
strumentali della storia da parte degli apparati statali (Beyond the
Frontier. The Politics of a Failed Mission: Bulgaria 1944). Nel 1991
pubblica Customs in Common. Si spegne nel 1993. Due suoi volumi, Witness
against the Beast (Apocalisse e rivoluzione. William Blake e la legge
morale, Cortina, 1996) e Making History, escono postumi, rispettivamente nel
1993 e nel 1994.

5. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

6. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it,
luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

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