Bollettino Quotidiano Della Pace
Pubblicata in data 7/9/2005


Sommario di questo numero:
1. Vandana Shiva: Civilta' della foresta
2. Lidia Menapace: Contenuti
3. Gaetano Arfe' ricorda Aldo Aniasi
4. Giulio Vittorangeli: 11 settembre di ieri e di oggi
5. Umberto Galimberti: Smettiamo di crescere
6. Monica Lanfranco colloquia con Lisa Clark sulle donne e il potere
7. La "Carta" del Movimento Nonviolento
8. Per saperne di piu'

1. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: CIVILTA' DELLA FORESTA
[Dal sito www.unita.it Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana,
direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni
universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche
come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi
tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi,
di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e
distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali
dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere
allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati
Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche
sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino
2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto
brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli,
Milano 2003]

Fino a non molto tempo fa gli indiani si sono identificati con l'Aranya
Sanskriti, la Civilta' della Foresta. Secondo l'eminente poeta Rabindranath
Tagore il carattere distintivo della cultura indiana consiste nell'aver
definito la vita nella foresta come la piu' alta forma di evoluzione
culturale. Nel suo Tapovan Tagore scrive che "la civilta' indiana si e'
caratterizzata per il fatto di aver attribuito alla foresta e non alla
citta' la sua fonte di rigenerazione, materiale e intellettuale". E ancora:
"La cultura scaturita dalla foresta e' stata influenzata dai diversi
processi di rinnovamento della vita, processi che sono sempre in atto nella
foresta e variano da specie a specie, da stagione a stagione per aspetto,
suono e odore. Il principio unificante della vita nella diversita', del
pluralismo democratico, e' diventato quindi il principio della civilta'
indiana".
Oggi incontriamo difficolta' nel proteggere i nostri sistemi fondamentali di
sostentamento della vita e la nostra identita' di fondo in quanto civilta'
proprio perche' abbiamo sacrificato, a beneficio delle categorie
riduzioniste e che si escludono a vicenda del pensiero occidentale, il
principio unificante della vita nella diversita' e del pluralismo
democratico che prelude alla coesistenza. La tigre e' contrapposta alle
popolazioni tribali, le popolazioni tribali sono contrapposte agli alberi.
La reciprocita' e il rapporto vengono sostituiti dall'antagonismo, dalla
polarizzazione e dall'esclusione che minacciano tutto: le popolazioni
tribali, la tigre e la biodiversita' della foresta.
Questa polarizzazione e il conflitto tra la protezione della specie umana e
delle specie non umane nelle nostre foreste sono apparsi evidenti in due
aspri dibattiti che hanno assorbito il paese negli ultimi mesi: uno sulla
scomparsa della tigre in India, paese nel quale le tigri da 40.000 che erano
un secolo fa sono ormai meno di 3.000; l'altro sulle tribu' censite (gruppi
riconosciuti e che hanno specifici diritti garantiti dalla Costituzione
indiana) e il Riconoscimento della Legge sui Diritti della Foresta del 2005.
Le popolazioni tribali, poco piu' dell'8% della popolazione dell'India,
vengono allontanate dalle loro abitazioni nella foresta per far posto alle
dighe, alle miniere e alle autostrade.
In un momento in cui gli ambientalisti e gli attivisti dei diritti tribali
dovrebbero fare fronte comune per proteggere le nostre foreste e le diverse
specie che le popolano dal saccheggio ad opera delle societa' minerarie, dei
cacciatori di frodo, dalle mafie del legno e della terra, in realta' passano
piu' tempo ad accusarsi a vicenda che a combattere il comune nemico.
In questioni vitali quali la sopravvivenza delle nostre foreste e del popolo
delle foreste, abbiamo bisogno di comunita' in grado di decidere e di
sistemi normativi e di tutela statali.
*
Le leggi coloniali indiane sulla tutela delle foreste e della fauna
selvatica erano basate sui pregiudizi occidentali secondo cui la specie
umana e le specie non umane non possono coesistere, i parchi debbono essere
disabitati e dove ci sono insediamenti umani non deve esserci biodiversita'.
Siamo in presenza della dottrina giuridica della "terra nullius" che e'
stato uno dei pilastri della colonizzazione. Se terra e foreste non fossero
state conservate non sarebbero state "sviluppate" e quindi, stando al
paradigma sulla proprieta' di Locke, non sarebbero state di proprieta' degli
originari abitanti. Durante la colonizzazione dell'Australia il governo
britannico si servi' del concetto della "terra nullius" per giustificare
l'espropriazione degli indigeni che vivevano la' da almeno 60.000 anni.
I coloni britannici non riconobbero che la terra veniva utilizzata in quanto
gli indigeni utilizzavano la terra in maniera differente. Di conseguenza i
diritti degli indigeni furono ignorati. Tuttavia come ebbe a statuire l'Alta
Corte nel 1992 in relazione al famoso caso Mabo, il non riconnoscimento non
estigue i diritti. Il Native Title Act approvato in Australia nel 1993, al
pari del proposto Tribal Act in India, riconosce la continuita' dei diritti.
Le tradizioni indigene indiane poggiavano sulla diversita', sul pluralismo,
sulla multifunzionalita', sulla non esclusivita'. La legge che riconosce i
diritti tribali rafforzera' la protezione delle foreste e della fauna
selvatica garantendo la sicurezza dei diritti e l'intervento delle guardie
forestali. Le popolazioni tribali insieme alle autorita' forestali debbono
proteggere congiuntamente le foreste dall'usurpazione. Non vi sono
alternative.
*
Cittadini e governo debbono collaborare.
Sistemi economici e stili di vita fondati sulla conservazione del patrimonio
forestale hanno tenuto in vita sia le popolazioni tribali che le foreste. Se
le popolazioni tribali e le foreste sono diventate piu' povere non e'
perche' la biodiversita' e la vita nelle foreste non generano ricchezza, ma
perche' quella ricchezza e' stata espropriata da forze commerciali esterne.
L'agricoltura biodiversificata e le economie pastorali possono essere
elementi sostenibili degli ecosistemi forestali.
La produzione non sostenibile su scala commerciale mediante l'impiego di
trattori, macchinari pesanti, sostanze chimiche tossiche non e' una
attivita' forestale sia che venga svolta da mafie che si impadroniscono
della terra sia che venga svolta da comunita' tribali. La tutela della
foresta e' l'autentica misura degli stili di vita e delle culture indigeni.
Nel suo The Agricultural Testament, Sir Albert Howard scrive:
"nell'agricoltura asiatica ci troviamo al cospetto di un sistema di
coltivazione contadina che, in buona sostanza, si e' andato subito
stabilizzando. Quanto sta accadendo oggi nei piccoli campi dell'India e
della Cina ha avuto luogo molti secoli fa. Le pratiche agricole dell'oriente
hanno superato la prova suprema, sono permanenti quasi come quelle della
foresta, della prateria o dell'oceano primordiali".
Questi principi di produzione perenne possono essere integrati nella
gestione forestale diversificata e multifunzionale che conserva specie
diverse e protegge tanto le foreste quanto gli stili di vita dei popoli
delle foreste. Se vogliamo possiamo fare in modo che le tigri, le
popolazioni tribali, gli alberi e tutte le altre forme di vita siano
protette e possano continuare il loro viaggio evolutivo in pace e armonia.
Qualora non dovessimo riuscirci perche' i nostri obiettivi poco lungimiranti
ci rendono ciechi al punto da non farci vedere i nostri piu' grandi doveri,
distruggeremo gli ecosistemi che sostengono la nostra vita e distruggeremo
la vita e le culture delle comunita' indigene che dispongono delle
conoscenze di cui l'umanita' ha bisogno per effettuare la transizione verso
un sistema di vita sostenibile su un pianeta estremamente fragile in tempi
estremamente fragili.

2. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: CONTENUTI
[Dal quotidiano "Liberazione" del 6 settembre 2005. Lidia Menapace (per
contatti: lidiamenapace@aliceposta.it ) e' nata a Novara nel 1924, partecipa
alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica
amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra
le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti
della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli
scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e
riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il
futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo.
Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento
politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia
Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza
sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara
Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il
papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna,
Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto
Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004]

Mi e' sembrato che la marcia Perugia-Assisi quest'anno sia un po' fiacca: ma
forse dipende dal fatto che non potendo io prendervi parte per impegni
familiari, me ne sono poco occupata.
In verita' ho colto attraverso messaggi vari un sentimento di dissenso e
distacco, che si e' un po' inserito anche in me, quando ho visto comparire
in televisione il messaggio di propaganda e letto le raccomandazioni
indirizzate ai partecipanti, tra le quali spicca forte la norma che per
essere presenti bisogna approvare la piattaforma eccetera. Fosse stato
chiesto a D'Alema quando si presento' alla marcia dopo la Nato e il Kossovo,
comunque meglio tardi che mai.
Eppure una marcia tutta concentrata sulla lotta alla poverta'
(necessarissima, un vero scandalo mondiale) che esprime un simbolico
straziante ma anonimo, nel quale tutto si vede, ma non una guerra, sembra un
po' reticente. Sembra strano pure che non si parli di guerra e terrorismo,
di ritiro immediato delle truppe dall'Iraq, di Gaza. Il brutto sospetto che
la poverta' sia usata per distrarre dalla guerra, viene in mente a chi e'
persona maligna come sono io. Del resto non ho dimenticato che a proposito
di D'Alema a un portavoce della Tavola della pace venne attrribuita quella
che imase a lunghissimo la migliore battuta in circolazione: īPerche' mai
non avremmo dovuto invitarlo? siamo d'accordo su tutto, tranne che sulla
guerra". Appunto.
Altri segnali mi sono arrivati come la notizia della convocazione di altre
manifestazioni. Alcune mi sembrano un po' settarie dato che se la prendono
con l'Onu dei popoli (iniziativa non nuova), quella dei giovani che parte
ora, e forse puo' anche dare spazio a chi non si ritrova nelle adunate come
a Colonia; naturalmente nessuno propone l'Onu delle donne, anzi non ci si
domanda nemmeno come mai non si sia fatta la quinta conferenza mondiale
delle Nazioni Unite sulla condizione delle donne sul pianeta (cadeva nel
2005). Altre molto giuste come quella di Grosseto contro l'allargamento di
Camp Darby.
Credo si debba affrontare la questione e non girarci in giro: la marcia
quest'anno si trova a un crocicchio molto importante: terrorismo e guerra
continuano, si fomentano e intrecciano, e debbono essere condannati
parimenti essendo ambedue crimini contro l'umanita'.
I pericoli di guerra continuano, le vicende della spedizione in Iraq sono
sempre piu' oscure, lo storno dell'otto per mille a finanziare la stessa e'
davvero una sberla in faccia a tutti e tutte quelle che hanno lasciato allo
stato l'otto per mille perche' fosse usato a fini umanitari. Insomma, anche
per il fatto che si sta formando con fatica e senza entusiasmo una possibile
coalizione che riesca a cacciare Berlusconi e ad avviare un primo passo per
uscire dal berlusconismo, sarebbe necessario il massimo di chiarezza e
determinazione, identita' e relazioni comprensive. Non mi sembra che ci
siamo per ora e non e' nemmeno detto che Berlusconi alla fine non lo
facciano cadere i suoi, non ricomponendo la Dc, ma costruendo la
Retinazione, proposta da Ruini, un aggiornamento dello storico patto
Gentiloni, che sarebbe un vero sostegno al disegno neotemporalista che mi
pare di vedere gia' nel nuovo pontificato. Di fronte a una proposta gia'
bene articolata e studiata nei suoi passaggi, non penso ci si possa
accontentare di pannicelli caldi o di piccole furberie.
*
Sono stata coinvolta a Bolzano in una vicenda che mi pare molto importante e
che potrebbe servire per la marcia di quest'anno. Alcuni missionari
bolzanini, che stanno in Brasile da venti o trent'anni e hanno mantenuto
relazioni con la nostra provincia, segnalano che la' e' stato avviato un
referendum (si terra' il 23 ottobre prossimo) che chiede di vietare il
commercio delle armi leggere. Le armi leggere, dette per uso sportivo o
civile (!) sono fonte di tremenda violenza quotidiana, sorreggono una
cultura della sopraffazione e della guerra, coinvolgono - come attori e
vittime - e avvelenano soprattutto giovani e giovanissimi. Insomma bisogna
fermarne il commercio e noi in Italia non possiamo davvero disenteressarci
di tutto cio', dato che l'Italia e' il secondo produttore al mondo di armi
leggere. Fermare o ridurre questo orrendo commercio servirebbe anche a
mettere il centrosinistra a confronto con un modello economico che non sia -
come ormai e' il nostro - poggiato prevalentemente se non esclusivamente
sulla progettazione fabbricazione e vendita di armi leggere (e anche di
sistemi d'arma), una bella vergogna.
Propongo percio' che si metta nella piattaforma della marcia l'appoggio piu'
forte al referendum, che e' stato proposto da un deputato che fu difensore
dei diritti civili durante la dittatura militare, e' appoggiato da tutte le
forze politiche e sindacali di sinistra, ha avuto ufficialmente l'appoggio
di tutte le chiese che invitano ad andare a votare e a votare si'
all'abrogazione del commercio delle armi leggere. Per una volta che si puo'
appoggiare una decisione giustissima e condivisa da molti e molte e fare un
gesto molto importante, credo valga la pena di non tirarsi indietro.

3. MEMORIA. GAETANO ARFE' RICORDA ALDO ANIASI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2005.
Su Gaetano Arfe' dal sito della Fondazione Turati (www.pertini.it/turati)
riprendiamo alcune stralci della scheda a lui dedicata: "Gaetano Arfe' e'
nato a Somma Vesuviana (Napoli) il 12 novembre 1925. Si e' laureato in
lettere e filosofia all'Universita' di Napoli nel 1948. Si specializzo' in
storia presso l'Istituto italiano di studi storici presieduto da Benedetto
Croce, con cui entro' in contatto fin dal 1942. Nel 1944 si arruolo' in una
formazione partigiana di "Giustizia e Liberta'" in Valtellina. Nel 1945 si
iscrisse al Partito socialista e divenne funzionario degli Archivi di Stato
intorno al 1960. A Firenze era gia' entrato in contatto con Calamandrei,
Codignola e il gruppo de "Il Ponte" e aveva collaborato con Gaetano
Salvemini alla raccolta dei suoi scritti sulla questione meridionale. Nel
1965 ottenne la libera docenza in storia contemporanea e insegno' a Bari e a
Salerno. Nel 1973 divenne titolare della cattedra di storia dei partiti e
dei movimenti politici presso la facolta' di Scienze Politiche
dell'Universita' di Firenze. Nel 1959 venne nominato condirettore della
rivista "Mondo Operaio", carica che conservera' fino al 1971. Dal 1966 al
1976 fu direttore dell' "Avanti!". Dal 1957 al 1982 fu membro del comitato
centrale e della direzione del Psi. Nel 1972 venne eletto senatore... Nel
1976 venne eletto deputato... Nel 1979 venne eletto deputato al Parlamento
europeo... Nel 1985 lascio' il Psi, motivando la sua scelta nel volumetto La
questione socialista (1986). Nel 1987 venne eletto senatore per la sinistra
indipendente. Ha scritto numerosi libri e saggi, tra cui la Storia
dell'"Avanti!" (1958) e la Storia del socialismo italiano 1892-1926 (1965)".
Aldo Aniasi, nato a Palmanova il 31 maggio 1921, protagonista della lotta
partigiana alla quale aveva partecipato con il nome di battaglia di "Iso
Danali", e' stato sindaco di Milano, deputato per cinque legislature,
vicepresidente della Camera e Ministro della Sanita' e delle Regioni; figura
storica del Partito socialista italiano, a meta' degli anni '90 aderi' ai
Democratici di sinistra; presidente della Federazione Italiana delle
Associazioni Partigiane, medaglia d'argento al valor militare, medaglia
d'oro per la cultura e l'istruzione per "l'attivita' di redenzione sociale",
e' scomparso alcuni giorni fa]

Nei commenti che ho letto sulla scomparsa di Aldo Aniasi una cosa non e'
stata detta, che egli nella sua duplice veste di presidente della Fiap, la
Federazione italiana delle associazioni partigiane fondata da Ferruccio
Parri a tutela dell'autonomia della Resistenza, e di direttore della rivista
"Lettera ai compagni" che ne e' l'organo, e' stato l'uomo di punta nella
battaglia rivolta a contrastare il passo e a rispondere colpo per colpo
all'offensiva ideologica metodologicamente miserevole e faziosamente
strumentale rivolta a offuscare la storia della Resistenza e a ridurla a un
triste e marginale episodio di guerra civile nella fase finale della guerra
contro il nazifascismo. In questo lavoro nulla egli ha concesso alla
nostalgia.
La difesa della Resistenza era per lui il tema di una battaglia politica,
era aspetto e momento di un piu' vasto e articolato impegno, e il circolo De
Amicis da lui fondato e diretto con infaticabile assiduita' e con sacrificio
personale e' stato lo strumento del quale si e' valso per alimentare la
cultura militante nella sua Milano con iniziative che non coinvolgessero
l'organizzazione resistenziale.
Se un giorno qualcuno ricostruira' il dibattito - che ha molto di ideologico
e poco di storiografico in atto da molti anni e sempre piu' spudorato e
virulento - intorno a questi temi, dovra' riconoscere che intorno a lui si
e' costituito il solo nucleo di resistenza attiva e organizzata, lucidamente
consapevole della posta in gioco, che di li' sono partite con esemplare
continuita' iniziative culturali di alto livello, in cui testimoni
autorevoli si alternavano a studiosi degni di questa qualifica.
Non cerco' mai adesioni compiacenti di generali gallonati e di accademici
esangui. La sua rivista colse per tempo quanto di pericolosamente ambiguo,
di deviante e anche di metodologicamente scorretto ci fosse nella formula
della "guerra civile" o nell'omaggio reso ai "ragazzi di Salo'", e non si
limito' a segnalarlo ma ne fece temi dominanti della propria problematica
storiografica. Un'antologia di scritti apparsi su "Lettera ai compagni",
oltre ad essere un dovuto omaggio alla sua memoria, darebbe un contributo
importante di idee e di passione a un dibattito mai concluso e nel quale
sempre piu' discontinua e fioca e' la risposta della cultura democratica del
nostro paese che sta perdendo la "battaglia delle idee" senza neanche
rendersi conto che la battaglia e' ancora in corso.
Il mio ultimo contatto telefonico con Aniasi risale a qualche settimana fa
ed ebbe a oggetto la richiesta di uno scritto a sostegno di una proposta che
gli avevo suggerita e per la quale si era gia' adoperato col consueto
impegno, quello di chiedere che tra i tanti busti, non tutti illustri,
disseminati nei corridoi del Senato due ne venissero immessi, di due uomini
che hanno onorato nel piu' alto e nel piu' nobile dei modi la storia
d'Italia, Ferruccio Parri e Altiero Spinelli, il capo della Resistenza e il
padre dell'Europa unita. Ne' l'uno, ne' l'altro avrebbero motivo di
compiacersi dei risultati raggiunti, ma i promotori, se ci saranno,
potrebbero diventare anche gli assertori di un impegno a riprendere e a
calare nella realta' i motivi della loro battaglia. "Cammini dritto chi non
e' gobbo", era l'antiretorico motto di Parri che il partigiano Iso aveva
fatto proprio. E' il motto al quale egli ha improntato la sua vita e che ci
lascia come monito con la sua morte. Grazie, Iso.

4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: 11 SETTEMBRE DI IERI E DI OGGI
[Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per
questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori
di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da
sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di
solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di
condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione
Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di
studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta'
concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione
di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra
soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha
svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e
riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti
interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui
promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra
altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre
1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara,
la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo,
Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996;
Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La
solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I
movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto
politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria,
una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra
neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della
solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno,
luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio
2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per
anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della
solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha
cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che
solidarieta'"]

In un suo celebre romanzo, Franz Kafka descrive l'America senza mai esserci
stato, e il fatto che il suo romanzo sia rimasto incompiuto pare un segno
della sua apertura all'oggi. Quel che colpisce e' l'attualita' della storia
raccontata nei primi anni '10. Si parla di un Paese dalle mille
contraddizioni, proprio come quello del dopo 11 settembre 2001,
dell'amministrazione Bush e della guerra preventiva. Basta citare la
descrizione dell'ingresso di Karl Rossmann (giovanotto europeo dei primi del
'900), nel porto di New York, la sua soggettiva della Statua della Liberta'
che improvvisamente si accende di una luce piu' viva, dando l'impressione
che il braccio che porta la spada (anziche' la fiaccola della realta': un
lapsus cosciente che rende conto della genialita' dello scrittore) si sia
alzato proprio in quel momento. Evidente e' la metafora presente in Kafka:
da una parte c'e' il prodotto di un ambiente mitteleuropeo, colto e
raffinato, che crede nel pensiero e nel confronto; dall'altra un mondo dove
conta solamente il profitto e l'identita' dell'essere umano e' legata alla
sua posizione nel sistema produttivo.
Questo inevitabilmente comporta che si lasciano dietro i deboli, come e'
accaduto a New Orleans con l'uragano Katrina. In politica estera, ha voluto
dire una logica della Casa Bianca basata sul principio "Poiche' la maggior
parte del mondo non condivide il nostro punto di vista, dobbiamo riservarci
il potere di decidere autonomamente", frase di Abraham Sofaer, consulente
legale del Dipartimento di Stato, per spiegare perche' gli Usa avevano
ignorato la sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell'Aia (1986)
che intimava al governo di Washington di cessare "l'uso illegale della
forza", cioe' il terrorismo contro il Nicaragua.
*
C'era gia' stato il precedente dell'11 settembre cileno (1973), il golpe
militare del generale Augusto Pinochet, che aveva messo fine, in un bagno di
sangue, a tre anni di un'esperienza senza precedenti. Per la borghesia
cilena, per i dirigenti degli Stati Uniti, era necessario infrangere il
sogno di Salvador Allende, una transizione pacifica verso un socialismo
democratico, prima che fosse troppo tardi. A ogni costo. Rappresento' per i
giovani di allora, quello che il G8 di Genova, l'11 settembre di New York,
l'11 marzo di Madrid sono per chi vive oggi: la scoperta della brutalita'
del potere, una porta violenta sbattuta in faccia alla speranza di un mondo
migliore.
L'America Latina sotto il giogo delle feroci dittature militari avrebbe
conosciuto la repressione crudele, la chiusura degli spazi civici, la lotta
tenace per i diritti umani quotidianamente violati, i prigionieri politici,
i torturati, gli scomparsi, le rifugiate, la poverta' e la miseria che
toccava li fondo, l'oscena ingerenza degli Stati Uniti e la guerra "sporca".
Oggi, quella fase sembra (a molti di noi) lontanissima. E' cambiata
l'America Latina, tante sono state le trasformazioni. Alle dittature
militari sono seguiti governi civili ma con politiche economiche
neoliberiste (il disastro argentino ne e' stata la testimonianza piu'
evidente), ed anche, con non poche difficolta', governi progressisti o di
sinistra: Venezuela, Brasile, Uruguay. Anche in Cile, il rimorso esemplare
della giornalista cilena Maria Angelica de Luigi, una delle firme piu' note
del grande giornale "El Mercurio", l'avversaria piu' tenace di Salvador
Allende, documenta il nuovo clima. Ha pubblicato un impressionante mea
culpa: "Sognavo cose semplici: tenerezza, un po' di erotismo, una casetta,
un buon collegio per mio figlio... I miei desideri: scrivere bene, fare
domande intelligenti, mettere in imbarazzo i miei interlocutori... Qualcuno,
dentro 'El Mercurio', ha forse pensato di fare un reportage nei centri di
tortura della Dina? Nessuno, nemmeno io. Non posso accusare nessuno. Non
sono mai stata censurata: ero un cane fedele. E durante quel periodo c'erano
cilene a cui veniva sfondata la vagina con animali, bottiglie, elettricita',
pugni; e venivano ammazzati bambini e genitori. Nello stesso momento, io
leggevo le favole a mio figlio, avevo una relazione, andavo in spiaggia con
i miei amici giornalisti. Chiedere perdono a tutti, a nessuno? Preferisco
personificare: io chiedo perdono a te Olivia Mora, alla giornalista che
portava la bandiera di Allende, a te, la donna di sinistra che si e' giocata
la vita per la causa senza cadere nei settarismi. Tu non hai mai pensato di
uccidere qualcuno, ma volevi realizzare la giustizia sociale... Olivia,
perdonami, perche' non ho fatto niente per rompere quella catena di orrore
che ha portato via uno dei tuoi figli".
*
Il nuovo 11 settembre (2001) con il riemergere della guerra, l'esplosione
del terrorismo, le torture, la caduta dei diritti della persona, ci indicano
su quale assurda strada ci siamo messi. Fatichiamo a comprendere pienamente
il significato dell'espressione "guerra permanente". Cioe' di guerre
(ufficiali e "informali") che non tollerano alcun terreno di mediazione
politica, che si alimentano di se stesse e dei loro integralismi ideologici,
religiosi e mercantili. La guerra in Iraq non ha solo approfondito il
fossato fra occidente e medioriente, cosa che da sola rende impraticabile il
piano delirante di Bush sull'intera regione, ma ha anche inflitto una
profonda ferita al diritto internazionale: vietare la guerra come soluzione
dei conflitti internazionali non era un pio desiderio di anime belle, ma e'
la condizione per una convivenza non mortifera una volta raggiunte le
capacita' distruttive del ventesimo e ventunesimo secolo.

5. RIFLESSIONE. UMBERTO GALIMBERTI: SMETTIAMO DI CRESCERE
[Dal quotidiano "La Repubblica" del 2 settembre 2005. Umberto Galimberti,
filosofo, saggista, docente universitario; dal sito http://venus.unive.it
riprendiamo la seguente scheda aggiornata al settembre 2004: "Umberto
Galimberti, nato a Monza nel 1942, e' stato dal 1976 professore incaricato
di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della
Storia. Dal 1999 e' professore ordinario all'universita' Ca' Foscari di
Venezia. Dal 1985 e' membro ordinario dell'international Association for
Analytical Psychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con "Il Sole-24 ore"
e dal 1995 a tutt'oggi con il quotidiano "la Repubblica". Dopo aver compiuto
studi di filosofia, di antropologia culturale e di psicologia, ha tradotto e
curato di Jaspers, di cui e' stato allievo durante i suoi soggiorni in
Germania: Sulla verita' (raccolta antologica), La Scuola, Brescia 1970; La
fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato 1973; Filosofia, Mursia, Milano
1972-1978, e Utet, Torino 1978; di Heidegger ha tradotto e curato:
Sull'essenza della verita', La Scuola, Brescia 1973. Opere di Umberto
Galimberti: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Marietti,
Casale Monferrato 1975, Il Saggiatore, Milano 1994); Linguaggio e civilta',
Mursia, Milano 1977, seconda edizione ampliata 1984); Psichiatria e
Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979; Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983;
La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano
1984; "Antropologia culturale", ne Gli strumenti del sapere contemporaneo,
Utet, Torino 1985; Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986; Gli
equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano 1987; "La parodia
dell'immaginario", in W. Pasini, C. Crepault, U. Galimberti, L"immaginario
sessuale, Cortina, Milano 1988; Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano
1989; Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992, nuova edizione:
Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999; Idee: il catalogo e'
questo, Feltrinelli, Milano 1992; Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994;
Paesaggi dell'anima, Mondadori, Milano 1996; Psiche e techne. L'uomo
nell'eta' della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999; E ora? La dimensione
umana e le sfide della scienza (opera dialogica con Edoardo Boncinelli e
Giovanni Maria Pace), Einaudi, Torino 2000; Orme del sacro, Feltrinelli,
Milano 2000;  La lampada di psiche, Casagrande, Bellinzona 2001; I vizi
capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003; e' in corso di
ripubblicazione nell'Universale Economica Feltrinelli l'intera sua opera"]

Che cosa prova la gente a diventare collettivamente piu' povera? Non parlo
dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200
milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media
che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito
per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le
rivendicazioni di categoria.
Si puo' sempre dire che un po' di poverta' non fa male, raddrizza i costumi
che abbiamo spinto un po' all'eccesso, spopola i ristoranti dove la troppa
gente non riesce piu' a scambiar parola, riduce il traffico che ha
trasformato le vie della nostra citta' in un unico grande parcheggio,
allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio,
le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo.
Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte
le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo
aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci,
o piu' semplicemente alla qualita' degli alimenti a cui e' da addebitare
quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare
allungamento della vita.
Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine
pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a
modificare l'andamento dell'economia la quale, per effetto della
globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e
virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di
trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno
davvero conosce.
Tutto cio' comportera', come dicono gli economisti, un rallentamento della
crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella
parola subdola: "crescita", che gli economisti applicano sia ai paesi
diseredati che raccolgono tra l'altro i quattro quinti dell'umanita', sia ai
paesi gia' sviluppati che nonostante cio' "devono crescere". Fin dove? E a
spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l'economia tace perche' il
problema non e' di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le voci
degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare.
Quando dico "economia" non dico solo agricoltura, commercio, industria e
finanza, ma dico soprattutto mentalita' diffusa, modo di sentire, categoria
dello spirito del nostro tempo, perche' questo e' diventato, nel modo di
pensare e di sentire di tutti, l'imperativo categorico della crescita.
Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei
nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo
che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita e' cosi'
diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia, una
garanzia per se' e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui,
se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una
finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una
paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un'ansia per il
futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto
d'aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillita' smentita dai brividi
del nostro ventre che pero' avvertiamo solo noi.
E cosi' ciascuno per se' sente il brivido della crescita zero a cui non sa
con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita
zero sara' sempre piu' il nostro futuro, non solo perche' non possiamo
continuare a pensare che i quattro quinti dell'umanita' continuino a
sacrificarsi per la nostra crescita, ma perche' quando la crescita non ha
altro scopo che continuare a crescere, e' l'uomo stesso del mondo
privilegiato a divenire semplice "funzionario" di questa idea fissa che, se
diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il
"senso" della vita, il suo sapore, il suo significato per noi.
Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci
desse l'opportunita' concreta di incominciare a riflettere sull'assurdo
ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualita' della nostra
comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un po' ambigua del nostro
amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto
sul modello di una crescita all'infinito ha parentela con l'assurdo, allora
anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la nostra
pelle o la dignita' dell'uomo come ancora accade in troppe parti del mondo,
puo' essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non solo il
nostro costume, ma anche la qualita' del nostro sguardo sulla vita e sul
mondo.
Cio' puo' avvenire incominciando magari a rinunciare all'individualismo
sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il "noi"
rispetto all'"io". Il noi del volontariato, della reciproca assistenza,
della familiarita' del borgo rispetto all'anonimato della metropoli, il noi
della convivialita', dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione
stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli
stili di vita.
Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi e' consapevole
di non poter controllare o modificare l'andamento dell'economia, ma dal
rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che
visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con l'aggravante
che in una societa' che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e
di crescita, il consumo non deve essere piu' considerato, come avveniva per
le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno,
ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. La' infatti dove la
produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere
consumate, e se il bisogno non e' spontaneo, se di queste merci non si sente
il bisogno, occorrera' che questo bisogno sia "prodotto".
In una societa' opulenta come la nostra, dove l'identita' di ciascuno e'
sempre piu' consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono
sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, puo' darsi che si cominci ad
avvertire, sotto quel mare di pubblicita' che ogni giorno ci viene
rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di
nichilismo dovuto al fatto, come scrive Guenther Anders, che: "L'umanita'
che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come
un'umanita' da buttar via".
Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa
sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri
comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti,
come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto
l'imperativo della crescita il lavoro e' visualizzato nel solo ambito
dell'economia, e cio' vuol dire che solo l'economia e' in grado di dare
espressione all'uomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro
orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo.
A sua volta il lavoro, non avendo altra finalita' se non quella di
concorrere all'incremento infinito della produzione, non sarebbe piu' il
luogo in cui l'uomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacita', le
sue ideazioni, l'attuazione della sua progettualita', ma solo il luogo in
cui l'uomo tocca con mano la sua "strumentalita'", il suo essere semplice
appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono l'apparato
tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle
sorti dell'uomo.
Perche' allora non passare gradatamente dal "lavoro come produzione" (che ha
in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perche') al
"lavoro come servizio" dove la produzione non ha in vista solo beni e merci
(di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i
bisogni e i desideri indotti, cioe' a loro volta prodotti), ma anche
erogazione di tempo, di cura, di relazione.
I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione
del lavoro (di cui la societa' gia' sente a livello massiccio l'esigenza, se
dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo
una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento
economico, se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse
diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e
sempre piu' merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e
per la relazione tra le persone.
Nel mondo dell'opulenza compriamo, in modo maniacale, merci e sempre piu'
merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di
relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del
lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perche' la felicita',
nonostante la pubblicita' vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di
telefonini o di computer, e piu' in generale di "prodotti", ma da uno
straccio di "relazione" in piu' che il lavoro come servizio (e non solo come
produzione) potrebbe incominciare a garantire.

6. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO COLLOQUIA CON LISA CLARK SULLE DONNE E IL
POTERE
[Dal quotidiano "Liberazione" del 6 settembre 2005.
Monica Lanfranco (per contatti: mochena@village.it), giornalista
professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con
le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il
trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT -
Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo,
libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'";
collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e
"Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance.
Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto
per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano
alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una
collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996
l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making".
Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato
imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con
Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo
testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile iin
floppy disk utilzzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in
Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della
partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro,
scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli
2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati
(politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e
sulla comunicazione.
Lisa Clark (per contatti: lisa.clark@libero.it), amica della nonviolenza, e'
impegnata nell'esperienza dei "Beati i costruttori di pace" e della "Rete di
Lilliput", ed ha preso parte a molte iniziative di formazione e di
intervento nonviolento]

Nell'ormai introvabile Le donne hanno detto a cura di Laura Bolgheri, un
utile compendio nel quale in ordine alfabetico sono racchiuse citazioni da
testi femminili su parole chiave, arrivate a "potere" colpisce, tra molti
nomi noti, come quelli di Elsa Morante e Ivy Compton Burnett, la riflessione
di un'anonima: "La sete di potere non e' affatto una caratteristica dei
forti, ma, come l'invidia, e' un vizio dei deboli, e uno dei piu'
pericolosi".
Gia', quante volte, scambiando confidenze nel quotidiano sulle relazioni
personali, la politica, la famiglia, abbiamo concluso che chi esercita il
potere abusandone non esprime saggezza maa fragilita', insicurezz,
instabilita', e abbiamo disquisito sui danni talvolta irreparabili di questo
comportamento? Lo abbiamo fatto a proposito di amici, amiche, amanti,
genitori, e poi su partiti, stati, societa': ogni persona ha la sua galleria
di piccoli e grandi esempi di esercizio di potere, nella costruttivita' come
nella negativita'. Il potere, pero', nel discorso comune, e' allusione non a
quello che conosciamo nella vita di tutti i giorni, ma a quello pesante e
opprimente della politica, che incide nell'esistenza, il piu' delle volte,
senza che si possa interloquire e incidere: il potere delle persone singole,
dei gruppi e delle istituzioni, lontane e vicine, che gravano sui destini
dei miliardi di persone che popolano il pianeta.
Raramente benevolo, raramente condiviso, quasi mai a misura di desideri e
aspettative il potere, specialmente se rapportato alle donne; relegate e
autoconsegnate nell'ambito del potere e dell'autorita' familiare, per le
femmine della specie umana "potere" e' vocabolo difficile, ambiguo, spesso
sporco e insidioso.
Le diverse correnti di pensiero femminista hanno sezionato l'argomento,
hanno svelato le trappole della connivenza e del consenso silenzioso che
nella storia le donne hanno testimoniato; hanno ironizzato sulle poche e
famose "potenti", splendide fotocopia dell'originale maschile, che non a
caso sono omaggiate e definite "donne con gli attributi", e quindi diventano
creature mutanti e ridicolmente grottesche nella galleria sociologica
dell'omologazione.
Resta chiaro, alla fine di ogni analisi, che il potere non parla un
linguaggio femminile, e i risultati che abbiamo di fronte, se solo volgiamo
lo sguardo limitandoci all'Occidente, non sono rassicuranti, specialmente se
le donne cominciano a popolare i luoghi decisionali senza un robusto
bagaglio di pensiero critico.
Ma alcune, sia tra quelle che vogliono tenersi a distanza dalle sue
emanazioni, sia tra quelle che invece vogliono cimentarsi con le forme di
potere alle quali possono arrivare, in questi ultimi quattro decenni
costellati dalla rivoluzione femminista hanno prodotto, spesso inascoltate,
alcune riflessioni forti e costruito pratiche alternative al potere che
avevano dinnanzi, parole diverse per dirlo, pratiche e fatti dissonanti per
risolvere i problemi e i conflitti. In particolare ha colpito, nel recente
fecondo dibattito sull'intreccio tra politica teorica e ricerca concreta di
alternative per fermare la guerra e il terrorismo, la frase di una poeta
attivista femminista nordamericana, Audre Lord, secondo la quale "non
possiamo smantellare la casa del padrone coni suoi attrezzi". Ossia chi
vuole cambiare il mondo non puo' sperare di farlo davvero usando gli stessi
mezzi adoperati dal potere che si vuole modificare. Una evidente messa in
discussione dell'assunto, largamente condiviso anche nelle ideologie
rivoluzionarie, che il fine giustifichi i mezzi. Che ne pensano le donne che
si confrontano con il potere e che nel loro percorso pongono attenzione alla
differenza di genere?
Iniziamo un viaggio tra le diversita' di pratiche e di pensiero di alcune.
La prima a rispondere e' Lisa Clark, attiva nei Beati i costruttori di pace,
nelle Rete Lilliput e una delle organizzatrici del Social forum di Firenze.
A lei, e alle interlocutrici che seguiranno, come prima domanda proponiamo
una riflessione proprio a partire dalla suggestione di Audre Lord.
*
- Monica Lanfranco: Non possiamo smantellare la casa del padrone con i suoi
attrezzi: sei d'accordo?
- Lisa Clark: Rilancio con un'altra citazione: "Rispondere alla violenza con
la violenza significa rendere ancora piu' buia una notte gia' priva di
stelle" (Martin Luther King). Come vedi non interpreto Lord in chiave
femminista ma sul piano della nonviolenza. Che si applica non solo nel
quadro delle violenze flagranti (guerre e terrorismi), ma anche nelle
violenze strutturali. Rispondere ai soprusi con la stessa moneta significa
tentare di risolvere il conflitto sul piano della forza invece che su quello
della giustizia, del diritto. E alla fine e' inevitabile la sostituzione di
un'oppressione con il suo opposto, immagine speculare. Il tentativo di
rompere gli schemi, usando altri attrezzi, cela in se' anche un altro
aspetto, sconosciuto alle violenze varie: il rifiuto del concetto di nemico.
Lotto contro l'ingiustizia, non contro chi ne e' responsabile. Nel lottare
contro l'oppressione, devo far capire all'oppressore che nella mia liberta'
sta anche la sua liberta'. Far capire al padrone che gli si vuol bene: nello
smantellare la sua casa fondata sull'oppressione, sara' liberato anche lui.
*
- Monica Lanfranco: Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con
le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si
uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell'agire maschile. Dove sta
il problema: nella politica o nelle donne?
- Lisa Clark: Le donne che si sono adattate al sistema di potere maschile:
Golda Meir e' il classico! Il problema, credo, sta nel non contrastare le
strutture violente, di dominio, ma cercare di rimanervi dentro, anche con le
migliori intenzioni "riformatrici". Dibattito quanto mai attuale. Non credo
che la attuali strutture economiche internazionali siano riformabili,
perche' proprio le premesse sono marce. Si fondano sulla nozione che sia
accettabile una struttura fondata sulla disuguaglianza, sul privilegio di
alcuni. Non credo che sia possibile un immediato cambiamento che risolva
tutte le ingiustizie (c'e' sempre il pericolo di sacrificare i fini ai
mezzi, come infinite rivoluzioni fallite dimostrano), ma cercare solo di
mettere una toppa qua e la' senza sfidare il sistema e' uno sforzo destinato
al fallimento (anche se alcuni sono davvero ben intenzionati). E' come
affrontare una terribile situazione di guerra, portando da mangiare (gli
aiuti umanitari) alle vittime civili. Se volessi essere proprio cinica,
direi che si tratta solo di prolungare l'agonia! Invece, lo sforzo di
cambiare le premesse (gli attrezzi), anche se non portera' certo subito a
rimediare a tutte le ingiustizie, e' l'unica strada. E' la strada che ti
permette di allargare la consapevolezza. Ho fiducia nel fatto che gli esseri
umani non sono per natura oppressori: quando capiscono, cambiano.
*
- Monica Lanfranco: Si puo' cambiare la politica, e il mondo, senza prendere
il potere?
- Lisa Clark: Cos'e' il potere? Se e' la poltrona, l'auto blu,
l'onorificenza: ancora la stessa risposta. Il potere deve risiedere altrove,
nella partecipazione delle persone alla vita politica, nella riduzione della
delega, in una rappresentanza continuamente verificata, rinnovata, senza
aver paura di divergenze di opinione, che sono il sale della politica vera.
*
- Monica Lanfranco: Quali possono essere gli alleati, e quali invece i
peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualita' della politica
per le donne?
- Lisa Clark: Il peggior ostacolo: chi ti continua a ripetere che le cose
sono sempre state cosi', da che mondo e' mondo. I migliori alleati: i
bambini con la freschezza delle loro idee e la loro innata sete di giustizia
(prima che li corrompano).
*
- Monica Lanfranco: Sei arrivata ad una posizione di primo piano nella
politica, e puoi scegliere cosa fare: le tue cinque prime azioni da
realizzare subito.
- Lisa Clark: Primo: un Ministero per il disarmo, che si occupi non solo di
smantellamento di armi, di riconversione della produzione bellica, ma di
"disarmare" la coscienza collettiva, facendo capire che la miglior difesa
sta nel non aver nemici (Gandhi) e non nell'armarsi fino ai denti. Secondo:
cambierei orizzonte alla politica estera: non piu' come referente
prioritario i paesi ricchi (Usa ecc.) o emergenti (Cina ecc.), ma i popoli
impoveriti. Terzo: insegnerei la storia dal punto di vista dei popoli, non
piu' come l'elenco delle guerre (con date e nomi di re, generali e
presidenti), insomma nominerei Lidia Menapace ministro della pubblica
istruzione. Quarto (so di essere controcorrente) istituirei un servizio
civile nazionale obbligatorio e retribuito, per far girare il mondo a
tutte/i le/i giovani. Costruire reti di solidarieta' tra i popoli: ecco gli
attrezzi giusti. Quinto: non ho detto niente sulle donne. Non imporrei quote
(35 o 50% donne), perche' se avessimo davvero cominciato a ragionare secondo
queste premesse (attrezzi) nuove, non ce ne sarebbe bisogno.

7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

8. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti: azionenonviolenta@sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it,
luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per
contatti: info@peacelink.it

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