Bollettino Quotidiano Della Pace |
Pubblicata in data 7/9/2005 Sommario di questo numero: 1. Vandana Shiva: Civilta' della foresta 2. Lidia Menapace: Contenuti 3. Gaetano Arfe' ricorda Aldo Aniasi 4. Giulio Vittorangeli: 11 settembre di ieri e di oggi 5. Umberto Galimberti: Smettiamo di crescere 6. Monica Lanfranco colloquia con Lisa Clark sulle donne e il potere 7. La "Carta" del Movimento Nonviolento 8. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: CIVILTA' DELLA FORESTA [Dal sito www.unita.it Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002. Le guerre dell'acqua, Feltrinelli, Milano 2003] Fino a non molto tempo fa gli indiani si sono identificati con l'Aranya Sanskriti, la Civilta' della Foresta. Secondo l'eminente poeta Rabindranath Tagore il carattere distintivo della cultura indiana consiste nell'aver definito la vita nella foresta come la piu' alta forma di evoluzione culturale. Nel suo Tapovan Tagore scrive che "la civilta' indiana si e' caratterizzata per il fatto di aver attribuito alla foresta e non alla citta' la sua fonte di rigenerazione, materiale e intellettuale". E ancora: "La cultura scaturita dalla foresta e' stata influenzata dai diversi processi di rinnovamento della vita, processi che sono sempre in atto nella foresta e variano da specie a specie, da stagione a stagione per aspetto, suono e odore. Il principio unificante della vita nella diversita', del pluralismo democratico, e' diventato quindi il principio della civilta' indiana". Oggi incontriamo difficolta' nel proteggere i nostri sistemi fondamentali di sostentamento della vita e la nostra identita' di fondo in quanto civilta' proprio perche' abbiamo sacrificato, a beneficio delle categorie riduzioniste e che si escludono a vicenda del pensiero occidentale, il principio unificante della vita nella diversita' e del pluralismo democratico che prelude alla coesistenza. La tigre e' contrapposta alle popolazioni tribali, le popolazioni tribali sono contrapposte agli alberi. La reciprocita' e il rapporto vengono sostituiti dall'antagonismo, dalla polarizzazione e dall'esclusione che minacciano tutto: le popolazioni tribali, la tigre e la biodiversita' della foresta. Questa polarizzazione e il conflitto tra la protezione della specie umana e delle specie non umane nelle nostre foreste sono apparsi evidenti in due aspri dibattiti che hanno assorbito il paese negli ultimi mesi: uno sulla scomparsa della tigre in India, paese nel quale le tigri da 40.000 che erano un secolo fa sono ormai meno di 3.000; l'altro sulle tribu' censite (gruppi riconosciuti e che hanno specifici diritti garantiti dalla Costituzione indiana) e il Riconoscimento della Legge sui Diritti della Foresta del 2005. Le popolazioni tribali, poco piu' dell'8% della popolazione dell'India, vengono allontanate dalle loro abitazioni nella foresta per far posto alle dighe, alle miniere e alle autostrade. In un momento in cui gli ambientalisti e gli attivisti dei diritti tribali dovrebbero fare fronte comune per proteggere le nostre foreste e le diverse specie che le popolano dal saccheggio ad opera delle societa' minerarie, dei cacciatori di frodo, dalle mafie del legno e della terra, in realta' passano piu' tempo ad accusarsi a vicenda che a combattere il comune nemico. In questioni vitali quali la sopravvivenza delle nostre foreste e del popolo delle foreste, abbiamo bisogno di comunita' in grado di decidere e di sistemi normativi e di tutela statali. * Le leggi coloniali indiane sulla tutela delle foreste e della fauna selvatica erano basate sui pregiudizi occidentali secondo cui la specie umana e le specie non umane non possono coesistere, i parchi debbono essere disabitati e dove ci sono insediamenti umani non deve esserci biodiversita'. Siamo in presenza della dottrina giuridica della "terra nullius" che e' stato uno dei pilastri della colonizzazione. Se terra e foreste non fossero state conservate non sarebbero state "sviluppate" e quindi, stando al paradigma sulla proprieta' di Locke, non sarebbero state di proprieta' degli originari abitanti. Durante la colonizzazione dell'Australia il governo britannico si servi' del concetto della "terra nullius" per giustificare l'espropriazione degli indigeni che vivevano la' da almeno 60.000 anni. I coloni britannici non riconobbero che la terra veniva utilizzata in quanto gli indigeni utilizzavano la terra in maniera differente. Di conseguenza i diritti degli indigeni furono ignorati. Tuttavia come ebbe a statuire l'Alta Corte nel 1992 in relazione al famoso caso Mabo, il non riconnoscimento non estigue i diritti. Il Native Title Act approvato in Australia nel 1993, al pari del proposto Tribal Act in India, riconosce la continuita' dei diritti. Le tradizioni indigene indiane poggiavano sulla diversita', sul pluralismo, sulla multifunzionalita', sulla non esclusivita'. La legge che riconosce i diritti tribali rafforzera' la protezione delle foreste e della fauna selvatica garantendo la sicurezza dei diritti e l'intervento delle guardie forestali. Le popolazioni tribali insieme alle autorita' forestali debbono proteggere congiuntamente le foreste dall'usurpazione. Non vi sono alternative. * Cittadini e governo debbono collaborare. Sistemi economici e stili di vita fondati sulla conservazione del patrimonio forestale hanno tenuto in vita sia le popolazioni tribali che le foreste. Se le popolazioni tribali e le foreste sono diventate piu' povere non e' perche' la biodiversita' e la vita nelle foreste non generano ricchezza, ma perche' quella ricchezza e' stata espropriata da forze commerciali esterne. L'agricoltura biodiversificata e le economie pastorali possono essere elementi sostenibili degli ecosistemi forestali. La produzione non sostenibile su scala commerciale mediante l'impiego di trattori, macchinari pesanti, sostanze chimiche tossiche non e' una attivita' forestale sia che venga svolta da mafie che si impadroniscono della terra sia che venga svolta da comunita' tribali. La tutela della foresta e' l'autentica misura degli stili di vita e delle culture indigeni. Nel suo The Agricultural Testament, Sir Albert Howard scrive: "nell'agricoltura asiatica ci troviamo al cospetto di un sistema di coltivazione contadina che, in buona sostanza, si e' andato subito stabilizzando. Quanto sta accadendo oggi nei piccoli campi dell'India e della Cina ha avuto luogo molti secoli fa. Le pratiche agricole dell'oriente hanno superato la prova suprema, sono permanenti quasi come quelle della foresta, della prateria o dell'oceano primordiali". Questi principi di produzione perenne possono essere integrati nella gestione forestale diversificata e multifunzionale che conserva specie diverse e protegge tanto le foreste quanto gli stili di vita dei popoli delle foreste. Se vogliamo possiamo fare in modo che le tigri, le popolazioni tribali, gli alberi e tutte le altre forme di vita siano protette e possano continuare il loro viaggio evolutivo in pace e armonia. Qualora non dovessimo riuscirci perche' i nostri obiettivi poco lungimiranti ci rendono ciechi al punto da non farci vedere i nostri piu' grandi doveri, distruggeremo gli ecosistemi che sostengono la nostra vita e distruggeremo la vita e le culture delle comunita' indigene che dispongono delle conoscenze di cui l'umanita' ha bisogno per effettuare la transizione verso un sistema di vita sostenibile su un pianeta estremamente fragile in tempi estremamente fragili. 2. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: CONTENUTI [Dal quotidiano "Liberazione" del 6 settembre 2005. Lidia Menapace (per contatti: lidiamenapace@aliceposta.it ) e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, e' poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto"; e' tra le voci piu' alte e significative della cultura delle donne, dei movimenti della societa' civile, della nonviolenza in cammino. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. Il futurismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; L'ermetismo. Ideologia e linguaggio, Celuc, Milano 1968; (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001; (con Fausto Bertinotti e Marco Revelli), Nonviolenza, Fazi, Roma 2004] Mi e' sembrato che la marcia Perugia-Assisi quest'anno sia un po' fiacca: ma forse dipende dal fatto che non potendo io prendervi parte per impegni familiari, me ne sono poco occupata. In verita' ho colto attraverso messaggi vari un sentimento di dissenso e distacco, che si e' un po' inserito anche in me, quando ho visto comparire in televisione il messaggio di propaganda e letto le raccomandazioni indirizzate ai partecipanti, tra le quali spicca forte la norma che per essere presenti bisogna approvare la piattaforma eccetera. Fosse stato chiesto a D'Alema quando si presento' alla marcia dopo la Nato e il Kossovo, comunque meglio tardi che mai. Eppure una marcia tutta concentrata sulla lotta alla poverta' (necessarissima, un vero scandalo mondiale) che esprime un simbolico straziante ma anonimo, nel quale tutto si vede, ma non una guerra, sembra un po' reticente. Sembra strano pure che non si parli di guerra e terrorismo, di ritiro immediato delle truppe dall'Iraq, di Gaza. Il brutto sospetto che la poverta' sia usata per distrarre dalla guerra, viene in mente a chi e' persona maligna come sono io. Del resto non ho dimenticato che a proposito di D'Alema a un portavoce della Tavola della pace venne attrribuita quella che imase a lunghissimo la migliore battuta in circolazione: īPerche' mai non avremmo dovuto invitarlo? siamo d'accordo su tutto, tranne che sulla guerra". Appunto. Altri segnali mi sono arrivati come la notizia della convocazione di altre manifestazioni. Alcune mi sembrano un po' settarie dato che se la prendono con l'Onu dei popoli (iniziativa non nuova), quella dei giovani che parte ora, e forse puo' anche dare spazio a chi non si ritrova nelle adunate come a Colonia; naturalmente nessuno propone l'Onu delle donne, anzi non ci si domanda nemmeno come mai non si sia fatta la quinta conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla condizione delle donne sul pianeta (cadeva nel 2005). Altre molto giuste come quella di Grosseto contro l'allargamento di Camp Darby. Credo si debba affrontare la questione e non girarci in giro: la marcia quest'anno si trova a un crocicchio molto importante: terrorismo e guerra continuano, si fomentano e intrecciano, e debbono essere condannati parimenti essendo ambedue crimini contro l'umanita'. I pericoli di guerra continuano, le vicende della spedizione in Iraq sono sempre piu' oscure, lo storno dell'otto per mille a finanziare la stessa e' davvero una sberla in faccia a tutti e tutte quelle che hanno lasciato allo stato l'otto per mille perche' fosse usato a fini umanitari. Insomma, anche per il fatto che si sta formando con fatica e senza entusiasmo una possibile coalizione che riesca a cacciare Berlusconi e ad avviare un primo passo per uscire dal berlusconismo, sarebbe necessario il massimo di chiarezza e determinazione, identita' e relazioni comprensive. Non mi sembra che ci siamo per ora e non e' nemmeno detto che Berlusconi alla fine non lo facciano cadere i suoi, non ricomponendo la Dc, ma costruendo la Retinazione, proposta da Ruini, un aggiornamento dello storico patto Gentiloni, che sarebbe un vero sostegno al disegno neotemporalista che mi pare di vedere gia' nel nuovo pontificato. Di fronte a una proposta gia' bene articolata e studiata nei suoi passaggi, non penso ci si possa accontentare di pannicelli caldi o di piccole furberie. * Sono stata coinvolta a Bolzano in una vicenda che mi pare molto importante e che potrebbe servire per la marcia di quest'anno. Alcuni missionari bolzanini, che stanno in Brasile da venti o trent'anni e hanno mantenuto relazioni con la nostra provincia, segnalano che la' e' stato avviato un referendum (si terra' il 23 ottobre prossimo) che chiede di vietare il commercio delle armi leggere. Le armi leggere, dette per uso sportivo o civile (!) sono fonte di tremenda violenza quotidiana, sorreggono una cultura della sopraffazione e della guerra, coinvolgono - come attori e vittime - e avvelenano soprattutto giovani e giovanissimi. Insomma bisogna fermarne il commercio e noi in Italia non possiamo davvero disenteressarci di tutto cio', dato che l'Italia e' il secondo produttore al mondo di armi leggere. Fermare o ridurre questo orrendo commercio servirebbe anche a mettere il centrosinistra a confronto con un modello economico che non sia - come ormai e' il nostro - poggiato prevalentemente se non esclusivamente sulla progettazione fabbricazione e vendita di armi leggere (e anche di sistemi d'arma), una bella vergogna. Propongo percio' che si metta nella piattaforma della marcia l'appoggio piu' forte al referendum, che e' stato proposto da un deputato che fu difensore dei diritti civili durante la dittatura militare, e' appoggiato da tutte le forze politiche e sindacali di sinistra, ha avuto ufficialmente l'appoggio di tutte le chiese che invitano ad andare a votare e a votare si' all'abrogazione del commercio delle armi leggere. Per una volta che si puo' appoggiare una decisione giustissima e condivisa da molti e molte e fare un gesto molto importante, credo valga la pena di non tirarsi indietro. 3. MEMORIA. GAETANO ARFE' RICORDA ALDO ANIASI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 31 agosto 2005. Su Gaetano Arfe' dal sito della Fondazione Turati (www.pertini.it/turati) riprendiamo alcune stralci della scheda a lui dedicata: "Gaetano Arfe' e' nato a Somma Vesuviana (Napoli) il 12 novembre 1925. Si e' laureato in lettere e filosofia all'Universita' di Napoli nel 1948. Si specializzo' in storia presso l'Istituto italiano di studi storici presieduto da Benedetto Croce, con cui entro' in contatto fin dal 1942. Nel 1944 si arruolo' in una formazione partigiana di "Giustizia e Liberta'" in Valtellina. Nel 1945 si iscrisse al Partito socialista e divenne funzionario degli Archivi di Stato intorno al 1960. A Firenze era gia' entrato in contatto con Calamandrei, Codignola e il gruppo de "Il Ponte" e aveva collaborato con Gaetano Salvemini alla raccolta dei suoi scritti sulla questione meridionale. Nel 1965 ottenne la libera docenza in storia contemporanea e insegno' a Bari e a Salerno. Nel 1973 divenne titolare della cattedra di storia dei partiti e dei movimenti politici presso la facolta' di Scienze Politiche dell'Universita' di Firenze. Nel 1959 venne nominato condirettore della rivista "Mondo Operaio", carica che conservera' fino al 1971. Dal 1966 al 1976 fu direttore dell' "Avanti!". Dal 1957 al 1982 fu membro del comitato centrale e della direzione del Psi. Nel 1972 venne eletto senatore... Nel 1976 venne eletto deputato... Nel 1979 venne eletto deputato al Parlamento europeo... Nel 1985 lascio' il Psi, motivando la sua scelta nel volumetto La questione socialista (1986). Nel 1987 venne eletto senatore per la sinistra indipendente. Ha scritto numerosi libri e saggi, tra cui la Storia dell'"Avanti!" (1958) e la Storia del socialismo italiano 1892-1926 (1965)". Aldo Aniasi, nato a Palmanova il 31 maggio 1921, protagonista della lotta partigiana alla quale aveva partecipato con il nome di battaglia di "Iso Danali", e' stato sindaco di Milano, deputato per cinque legislature, vicepresidente della Camera e Ministro della Sanita' e delle Regioni; figura storica del Partito socialista italiano, a meta' degli anni '90 aderi' ai Democratici di sinistra; presidente della Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, medaglia d'argento al valor militare, medaglia d'oro per la cultura e l'istruzione per "l'attivita' di redenzione sociale", e' scomparso alcuni giorni fa] Nei commenti che ho letto sulla scomparsa di Aldo Aniasi una cosa non e' stata detta, che egli nella sua duplice veste di presidente della Fiap, la Federazione italiana delle associazioni partigiane fondata da Ferruccio Parri a tutela dell'autonomia della Resistenza, e di direttore della rivista "Lettera ai compagni" che ne e' l'organo, e' stato l'uomo di punta nella battaglia rivolta a contrastare il passo e a rispondere colpo per colpo all'offensiva ideologica metodologicamente miserevole e faziosamente strumentale rivolta a offuscare la storia della Resistenza e a ridurla a un triste e marginale episodio di guerra civile nella fase finale della guerra contro il nazifascismo. In questo lavoro nulla egli ha concesso alla nostalgia. La difesa della Resistenza era per lui il tema di una battaglia politica, era aspetto e momento di un piu' vasto e articolato impegno, e il circolo De Amicis da lui fondato e diretto con infaticabile assiduita' e con sacrificio personale e' stato lo strumento del quale si e' valso per alimentare la cultura militante nella sua Milano con iniziative che non coinvolgessero l'organizzazione resistenziale. Se un giorno qualcuno ricostruira' il dibattito - che ha molto di ideologico e poco di storiografico in atto da molti anni e sempre piu' spudorato e virulento - intorno a questi temi, dovra' riconoscere che intorno a lui si e' costituito il solo nucleo di resistenza attiva e organizzata, lucidamente consapevole della posta in gioco, che di li' sono partite con esemplare continuita' iniziative culturali di alto livello, in cui testimoni autorevoli si alternavano a studiosi degni di questa qualifica. Non cerco' mai adesioni compiacenti di generali gallonati e di accademici esangui. La sua rivista colse per tempo quanto di pericolosamente ambiguo, di deviante e anche di metodologicamente scorretto ci fosse nella formula della "guerra civile" o nell'omaggio reso ai "ragazzi di Salo'", e non si limito' a segnalarlo ma ne fece temi dominanti della propria problematica storiografica. Un'antologia di scritti apparsi su "Lettera ai compagni", oltre ad essere un dovuto omaggio alla sua memoria, darebbe un contributo importante di idee e di passione a un dibattito mai concluso e nel quale sempre piu' discontinua e fioca e' la risposta della cultura democratica del nostro paese che sta perdendo la "battaglia delle idee" senza neanche rendersi conto che la battaglia e' ancora in corso. Il mio ultimo contatto telefonico con Aniasi risale a qualche settimana fa ed ebbe a oggetto la richiesta di uno scritto a sostegno di una proposta che gli avevo suggerita e per la quale si era gia' adoperato col consueto impegno, quello di chiedere che tra i tanti busti, non tutti illustri, disseminati nei corridoi del Senato due ne venissero immessi, di due uomini che hanno onorato nel piu' alto e nel piu' nobile dei modi la storia d'Italia, Ferruccio Parri e Altiero Spinelli, il capo della Resistenza e il padre dell'Europa unita. Ne' l'uno, ne' l'altro avrebbero motivo di compiacersi dei risultati raggiunti, ma i promotori, se ci saranno, potrebbero diventare anche gli assertori di un impegno a riprendere e a calare nella realta' i motivi della loro battaglia. "Cammini dritto chi non e' gobbo", era l'antiretorico motto di Parri che il partigiano Iso aveva fatto proprio. E' il motto al quale egli ha improntato la sua vita e che ci lascia come monito con la sua morte. Grazie, Iso. 4. RIFLESSIONE. GIULIO VITTORANGELI: 11 SETTEMBRE DI IERI E DI OGGI [Ringraziamo Giulio Vittorangeli (per contatti: g.vittorangeli@wooow.it) per questo intervento. Giulio Vittorangeli e' uno dei fondamentali collaboratori di questo notiziario; nato a Tuscania (Vt) il 18 dicembre 1953, impegnato da sempre nei movimenti della sinistra di base e alternativa, ecopacifisti e di solidarieta' internazionale, con una lucidita' di pensiero e un rigore di condotta impareggiabili; e' il responsabile dell'Associazione Italia-Nicaragua di Viterbo, ha promosso numerosi convegni ed occasioni di studio e confronto, ed e' impegnato in rilevanti progetti di solidarieta' concreta; ha costantemente svolto anche un'alacre attivita' di costruzione di occasioni di incontro, coordinamento, riflessione e lavoro comune tra soggetti diversi impegnati per la pace, la solidarieta', i diritti umani. Ha svolto altresi' un'intensa attivita' pubblicistica di documentazione e riflessione, dispersa in riviste ed atti di convegni; suoi rilevanti interventi sono negli atti di diversi convegni; tra i convegni da lui promossi ed introdotti di cui sono stati pubblicati gli atti segnaliamo, tra altri di non minor rilevanza: Silvia, Gabriella e le altre, Viterbo, ottobre 1995; Innamorati della liberta', liberi di innamorarsi. Ernesto Che Guevara, la storia e la memoria, Viterbo, gennaio 1996; Oscar Romero e il suo popolo, Viterbo, marzo 1996; Il Centroamerica desaparecido, Celleno, luglio 1996; Primo Levi, testimone della dignita' umana, Bolsena, maggio 1998; La solidarieta' nell'era della globalizzazione, Celleno, luglio 1998; I movimenti ecopacifisti e della solidarieta' da soggetto culturale a soggetto politico, Viterbo, ottobre 1998; Rosa Luxemburg, una donna straordinaria, una grande personalita' politica, Viterbo, maggio 1999; Nicaragua: tra neoliberismo e catastrofi naturali, Celleno, luglio 1999; La sfida della solidarieta' internazionale nell'epoca della globalizzazione, Celleno, luglio 2000; Ripensiamo la solidarieta' internazionale, Celleno, luglio 2001; America Latina: il continente insubordinato, Viterbo, marzo 2003. Per anni ha curato una rubrica di politica internazionale e sui temi della solidarieta' sul settimanale viterbese "Sotto Voce" (periodico che ha cessato le pubblicazioni nel 1997). Cura il notiziario "Quelli che solidarieta'"] In un suo celebre romanzo, Franz Kafka descrive l'America senza mai esserci stato, e il fatto che il suo romanzo sia rimasto incompiuto pare un segno della sua apertura all'oggi. Quel che colpisce e' l'attualita' della storia raccontata nei primi anni '10. Si parla di un Paese dalle mille contraddizioni, proprio come quello del dopo 11 settembre 2001, dell'amministrazione Bush e della guerra preventiva. Basta citare la descrizione dell'ingresso di Karl Rossmann (giovanotto europeo dei primi del '900), nel porto di New York, la sua soggettiva della Statua della Liberta' che improvvisamente si accende di una luce piu' viva, dando l'impressione che il braccio che porta la spada (anziche' la fiaccola della realta': un lapsus cosciente che rende conto della genialita' dello scrittore) si sia alzato proprio in quel momento. Evidente e' la metafora presente in Kafka: da una parte c'e' il prodotto di un ambiente mitteleuropeo, colto e raffinato, che crede nel pensiero e nel confronto; dall'altra un mondo dove conta solamente il profitto e l'identita' dell'essere umano e' legata alla sua posizione nel sistema produttivo. Questo inevitabilmente comporta che si lasciano dietro i deboli, come e' accaduto a New Orleans con l'uragano Katrina. In politica estera, ha voluto dire una logica della Casa Bianca basata sul principio "Poiche' la maggior parte del mondo non condivide il nostro punto di vista, dobbiamo riservarci il potere di decidere autonomamente", frase di Abraham Sofaer, consulente legale del Dipartimento di Stato, per spiegare perche' gli Usa avevano ignorato la sentenza della Corte internazionale di Giustizia dell'Aia (1986) che intimava al governo di Washington di cessare "l'uso illegale della forza", cioe' il terrorismo contro il Nicaragua. * C'era gia' stato il precedente dell'11 settembre cileno (1973), il golpe militare del generale Augusto Pinochet, che aveva messo fine, in un bagno di sangue, a tre anni di un'esperienza senza precedenti. Per la borghesia cilena, per i dirigenti degli Stati Uniti, era necessario infrangere il sogno di Salvador Allende, una transizione pacifica verso un socialismo democratico, prima che fosse troppo tardi. A ogni costo. Rappresento' per i giovani di allora, quello che il G8 di Genova, l'11 settembre di New York, l'11 marzo di Madrid sono per chi vive oggi: la scoperta della brutalita' del potere, una porta violenta sbattuta in faccia alla speranza di un mondo migliore. L'America Latina sotto il giogo delle feroci dittature militari avrebbe conosciuto la repressione crudele, la chiusura degli spazi civici, la lotta tenace per i diritti umani quotidianamente violati, i prigionieri politici, i torturati, gli scomparsi, le rifugiate, la poverta' e la miseria che toccava li fondo, l'oscena ingerenza degli Stati Uniti e la guerra "sporca". Oggi, quella fase sembra (a molti di noi) lontanissima. E' cambiata l'America Latina, tante sono state le trasformazioni. Alle dittature militari sono seguiti governi civili ma con politiche economiche neoliberiste (il disastro argentino ne e' stata la testimonianza piu' evidente), ed anche, con non poche difficolta', governi progressisti o di sinistra: Venezuela, Brasile, Uruguay. Anche in Cile, il rimorso esemplare della giornalista cilena Maria Angelica de Luigi, una delle firme piu' note del grande giornale "El Mercurio", l'avversaria piu' tenace di Salvador Allende, documenta il nuovo clima. Ha pubblicato un impressionante mea culpa: "Sognavo cose semplici: tenerezza, un po' di erotismo, una casetta, un buon collegio per mio figlio... I miei desideri: scrivere bene, fare domande intelligenti, mettere in imbarazzo i miei interlocutori... Qualcuno, dentro 'El Mercurio', ha forse pensato di fare un reportage nei centri di tortura della Dina? Nessuno, nemmeno io. Non posso accusare nessuno. Non sono mai stata censurata: ero un cane fedele. E durante quel periodo c'erano cilene a cui veniva sfondata la vagina con animali, bottiglie, elettricita', pugni; e venivano ammazzati bambini e genitori. Nello stesso momento, io leggevo le favole a mio figlio, avevo una relazione, andavo in spiaggia con i miei amici giornalisti. Chiedere perdono a tutti, a nessuno? Preferisco personificare: io chiedo perdono a te Olivia Mora, alla giornalista che portava la bandiera di Allende, a te, la donna di sinistra che si e' giocata la vita per la causa senza cadere nei settarismi. Tu non hai mai pensato di uccidere qualcuno, ma volevi realizzare la giustizia sociale... Olivia, perdonami, perche' non ho fatto niente per rompere quella catena di orrore che ha portato via uno dei tuoi figli". * Il nuovo 11 settembre (2001) con il riemergere della guerra, l'esplosione del terrorismo, le torture, la caduta dei diritti della persona, ci indicano su quale assurda strada ci siamo messi. Fatichiamo a comprendere pienamente il significato dell'espressione "guerra permanente". Cioe' di guerre (ufficiali e "informali") che non tollerano alcun terreno di mediazione politica, che si alimentano di se stesse e dei loro integralismi ideologici, religiosi e mercantili. La guerra in Iraq non ha solo approfondito il fossato fra occidente e medioriente, cosa che da sola rende impraticabile il piano delirante di Bush sull'intera regione, ma ha anche inflitto una profonda ferita al diritto internazionale: vietare la guerra come soluzione dei conflitti internazionali non era un pio desiderio di anime belle, ma e' la condizione per una convivenza non mortifera una volta raggiunte le capacita' distruttive del ventesimo e ventunesimo secolo. 5. RIFLESSIONE. UMBERTO GALIMBERTI: SMETTIAMO DI CRESCERE [Dal quotidiano "La Repubblica" del 2 settembre 2005. Umberto Galimberti, filosofo, saggista, docente universitario; dal sito http://venus.unive.it riprendiamo la seguente scheda aggiornata al settembre 2004: "Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, e' stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 e' professore ordinario all'universita' Ca' Foscari di Venezia. Dal 1985 e' membro ordinario dell'international Association for Analytical Psychology. Dal 1987 al 1995 ha collaborato con "Il Sole-24 ore" e dal 1995 a tutt'oggi con il quotidiano "la Repubblica". Dopo aver compiuto studi di filosofia, di antropologia culturale e di psicologia, ha tradotto e curato di Jaspers, di cui e' stato allievo durante i suoi soggiorni in Germania: Sulla verita' (raccolta antologica), La Scuola, Brescia 1970; La fede filosofica, Marietti, Casale Monferrato 1973; Filosofia, Mursia, Milano 1972-1978, e Utet, Torino 1978; di Heidegger ha tradotto e curato: Sull'essenza della verita', La Scuola, Brescia 1973. Opere di Umberto Galimberti: Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'Occidente, Marietti, Casale Monferrato 1975, Il Saggiatore, Milano 1994); Linguaggio e civilta', Mursia, Milano 1977, seconda edizione ampliata 1984); Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano 1979; Il corpo, Feltrinelli, Milano 1983; La terra senza il male. Jung dall'inconscio al simbolo, Feltrinelli, Milano 1984; "Antropologia culturale", ne Gli strumenti del sapere contemporaneo, Utet, Torino 1985; Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986; Gli equivoci dell'anima, Feltrinelli, Milano 1987; "La parodia dell'immaginario", in W. Pasini, C. Crepault, U. Galimberti, L"immaginario sessuale, Cortina, Milano 1988; Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano 1989; Dizionario di psicologia, Utet, Torino 1992, nuova edizione: Enciclopedia di Psicologia, Garzanti, Milano 1999; Idee: il catalogo e' questo, Feltrinelli, Milano 1992; Parole nomadi, Feltrinelli, Milano 1994; Paesaggi dell'anima, Mondadori, Milano 1996; Psiche e techne. L'uomo nell'eta' della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999; E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza (opera dialogica con Edoardo Boncinelli e Giovanni Maria Pace), Einaudi, Torino 2000; Orme del sacro, Feltrinelli, Milano 2000; La lampada di psiche, Casagrande, Bellinzona 2001; I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano 2003; e' in corso di ripubblicazione nell'Universale Economica Feltrinelli l'intera sua opera"] Che cosa prova la gente a diventare collettivamente piu' povera? Non parlo dei poveri che il fisco risparmia e neppure di quelli per i quali 200 milioni di euro equivalgono ai nostri 200 euro, ma di quella classe media che, essendo diventata negli ultimi decenni la classe di tutti, ha finito per dissolvere perfino le rivendicazioni di classe, sostituendole con le rivendicazioni di categoria. Si puo' sempre dire che un po' di poverta' non fa male, raddrizza i costumi che abbiamo spinto un po' all'eccesso, spopola i ristoranti dove la troppa gente non riesce piu' a scambiar parola, riduce il traffico che ha trasformato le vie della nostra citta' in un unico grande parcheggio, allenta la morsa dei weekend forzati, assottiglia, nelle agenzie di viaggio, le folle di quanti pensano che basta cambiar cielo per cambiar animo. Le discoteche chiuderanno qualche ora prima, alcuni giovani vedranno ridotte le loro chances di finire direttamente al cimitero, chances che purtroppo aumenteranno per quanti non riusciranno a tener dietro al costo dei farmaci, o piu' semplicemente alla qualita' degli alimenti a cui e' da addebitare quel prolungamento della vecchiaia che in Occidente siamo soliti chiamare allungamento della vita. Eppure, nonostante questi vantaggi secondari, un senso di inquietudine pervade sia i singoli individui sia le imprese che si sentono impotenti a modificare l'andamento dell'economia la quale, per effetto della globalizzazione e forse della supremazia dell'aspetto finanziario (e virtuale) su quello produttivo (e reale), sembra sia divenuta qualcosa di trascendente, qualcosa di governato da un dio ignoto, i cui disegni nessuno davvero conosce. Tutto cio' comportera', come dicono gli economisti, un rallentamento della crescita, quando non addirittura una crescita zero. E qui siamo a quella parola subdola: "crescita", che gli economisti applicano sia ai paesi diseredati che raccolgono tra l'altro i quattro quinti dell'umanita', sia ai paesi gia' sviluppati che nonostante cio' "devono crescere". Fin dove? E a spese di chi? E a quali costi ambientali? Qui l'economia tace perche' il problema non e' di sua competenza, e con l'economia tacciono anche le voci degli uomini che alle leggi dell'economia si devono piegare. Quando dico "economia" non dico solo agricoltura, commercio, industria e finanza, ma dico soprattutto mentalita' diffusa, modo di sentire, categoria dello spirito del nostro tempo, perche' questo e' diventato, nel modo di pensare e di sentire di tutti, l'imperativo categorico della crescita. Figli come siamo di padri, che a loro volta sono cresciuti sul lavoro dei nonni, siamo ormai alla terza o quarta generazione che cresce con un ritmo che la storia non ha mai conosciuto. La categoria della crescita e' cosi' diventata una forma mentis, uno stato d'animo, un rimedio all'angoscia, una garanzia per se' e per i propri figli, una caparra per il futuro, per cui, se per effetto di Maastricht, se per mettere in ordine i conti, se per una finanziaria dura questa speranza nella crescita si affievolisce accade una paralisi del pensiero, una confusione del sentimento, un'ansia per il futuro, un senso di inquietudine come quando sugli aerei si infila un vuoto d'aria e tutti composti ostentiamo quella tranquillita' smentita dai brividi del nostro ventre che pero' avvertiamo solo noi. E cosi' ciascuno per se' sente il brivido della crescita zero a cui non sa con che strumenti reagire, soprattutto se ha il sospetto che la crescita zero sara' sempre piu' il nostro futuro, non solo perche' non possiamo continuare a pensare che i quattro quinti dell'umanita' continuino a sacrificarsi per la nostra crescita, ma perche' quando la crescita non ha altro scopo che continuare a crescere, e' l'uomo stesso del mondo privilegiato a divenire semplice "funzionario" di questa idea fissa che, se diventa lo scopo collettivo della vita di tutti, affossa e seppellisce il "senso" della vita, il suo sapore, il suo significato per noi. Se in cambio dei soldi che toglie dalle nostre tasche, la crescita zero ci desse l'opportunita' concreta di incominciare a riflettere sull'assurdo ritmo che aveva acquistato la nostra esistenza, sulla qualita' della nostra comunicazione ormai troppo mediata, sulla natura un po' ambigua del nostro amore fatto ormai di sole cose, e soprattutto sul fatto che regolare tutto sul modello di una crescita all'infinito ha parentela con l'assurdo, allora anche la crescita zero, che finora tocca solo i nostri soldi e non la nostra pelle o la dignita' dell'uomo come ancora accade in troppe parti del mondo, puo' essere accettata come una buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualita' del nostro sguardo sulla vita e sul mondo. Cio' puo' avvenire incominciando magari a rinunciare all'individualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per privilegiare il "noi" rispetto all'"io". Il noi del volontariato, della reciproca assistenza, della familiarita' del borgo rispetto all'anonimato della metropoli, il noi della convivialita', dei comportamenti virtuosi in ordine alla circolazione stradale, alla scelta e al consumo dei cibi, alle condotte a rischio, agli stili di vita. Valori non economici, dettati non dalla rassegnazione di chi e' consapevole di non poter controllare o modificare l'andamento dell'economia, ma dal rifiuto a sacrificare la propria esistenza al mito della crescita, che visualizza gli uomini solo come produttori e consumatori. Con l'aggravante che in una societa' che visualizza se stessa solo in termini di sviluppo e di crescita, il consumo non deve essere piu' considerato, come avveniva per le generazioni precedenti, esclusivamente come soddisfazione di un bisogno, ma anche, e oggi soprattutto, come mezzo di produzione. La' infatti dove la produzione non tollera interruzioni, le merci "hanno bisogno" di essere consumate, e se il bisogno non e' spontaneo, se di queste merci non si sente il bisogno, occorrera' che questo bisogno sia "prodotto". In una societa' opulenta come la nostra, dove l'identita' di ciascuno e' sempre piu' consegnata agli oggetti che possiede, i quali non solo sono sostituibili, ma "devono" essere sostituiti, puo' darsi che si cominci ad avvertire, sotto quel mare di pubblicita' che ogni giorno ci viene rovesciato addosso, una sorta di appello alla distruzione, una forma di nichilismo dovuto al fatto, come scrive Guenther Anders, che: "L'umanita' che tratta il mondo come un mondo da buttar via, tratta anche se stessa come un'umanita' da buttar via". Se nel sottosuolo della nostra anima collettiva si fa strada questa sensazione che muta la gerarchia dei nostri pensieri e la forma dei nostri comportamenti, anche il profilo del lavoro potrebbe mutare. Oggi, infatti, come ci ricorda Franco Totaro nel suo bel libro Non di solo lavoro, sotto l'imperativo della crescita il lavoro e' visualizzato nel solo ambito dell'economia, e cio' vuol dire che solo l'economia e' in grado di dare espressione all'uomo, il quale non avrebbe come suo riferimento altro orizzonte di senso se non quello determinato dal fare produttivo. A sua volta il lavoro, non avendo altra finalita' se non quella di concorrere all'incremento infinito della produzione, non sarebbe piu' il luogo in cui l'uomo, realizzandosi, incontra se stesso, le sue capacita', le sue ideazioni, l'attuazione della sua progettualita', ma solo il luogo in cui l'uomo tocca con mano la sua "strumentalita'", il suo essere semplice appendice delle macchine, che nel loro insieme compongono l'apparato tecnico-economico, interessato solo al proprio potenziamento e non alle sorti dell'uomo. Perche' allora non passare gradatamente dal "lavoro come produzione" (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale senza ragione e senza perche') al "lavoro come servizio" dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri indotti, cioe' a loro volta prodotti), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione. I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la societa' gia' sente a livello massiccio l'esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e incominciare a produrre non solo merci e sempre piu' merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone. Nel mondo dell'opulenza compriamo, in modo maniacale, merci e sempre piu' merci per compensare la depressione che ci deriva dalla mancanza di relazioni, che siano vere e non solo funzionali come esige la logica del lavoro. Non sarebbe impossibile invertire la tendenza, perche' la felicita', nonostante la pubblicita' vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di telefonini o di computer, e piu' in generale di "prodotti", ma da uno straccio di "relazione" in piu' che il lavoro come servizio (e non solo come produzione) potrebbe incominciare a garantire. 6. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO COLLOQUIA CON LISA CLARK SULLE DONNE E IL POTERE [Dal quotidiano "Liberazione" del 6 settembre 2005. Monica Lanfranco (per contatti: mochena@village.it), giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile iin floppy disk utilzzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro, scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione. Lisa Clark (per contatti: lisa.clark@libero.it), amica della nonviolenza, e' impegnata nell'esperienza dei "Beati i costruttori di pace" e della "Rete di Lilliput", ed ha preso parte a molte iniziative di formazione e di intervento nonviolento] Nell'ormai introvabile Le donne hanno detto a cura di Laura Bolgheri, un utile compendio nel quale in ordine alfabetico sono racchiuse citazioni da testi femminili su parole chiave, arrivate a "potere" colpisce, tra molti nomi noti, come quelli di Elsa Morante e Ivy Compton Burnett, la riflessione di un'anonima: "La sete di potere non e' affatto una caratteristica dei forti, ma, come l'invidia, e' un vizio dei deboli, e uno dei piu' pericolosi". Gia', quante volte, scambiando confidenze nel quotidiano sulle relazioni personali, la politica, la famiglia, abbiamo concluso che chi esercita il potere abusandone non esprime saggezza maa fragilita', insicurezz, instabilita', e abbiamo disquisito sui danni talvolta irreparabili di questo comportamento? Lo abbiamo fatto a proposito di amici, amiche, amanti, genitori, e poi su partiti, stati, societa': ogni persona ha la sua galleria di piccoli e grandi esempi di esercizio di potere, nella costruttivita' come nella negativita'. Il potere, pero', nel discorso comune, e' allusione non a quello che conosciamo nella vita di tutti i giorni, ma a quello pesante e opprimente della politica, che incide nell'esistenza, il piu' delle volte, senza che si possa interloquire e incidere: il potere delle persone singole, dei gruppi e delle istituzioni, lontane e vicine, che gravano sui destini dei miliardi di persone che popolano il pianeta. Raramente benevolo, raramente condiviso, quasi mai a misura di desideri e aspettative il potere, specialmente se rapportato alle donne; relegate e autoconsegnate nell'ambito del potere e dell'autorita' familiare, per le femmine della specie umana "potere" e' vocabolo difficile, ambiguo, spesso sporco e insidioso. Le diverse correnti di pensiero femminista hanno sezionato l'argomento, hanno svelato le trappole della connivenza e del consenso silenzioso che nella storia le donne hanno testimoniato; hanno ironizzato sulle poche e famose "potenti", splendide fotocopia dell'originale maschile, che non a caso sono omaggiate e definite "donne con gli attributi", e quindi diventano creature mutanti e ridicolmente grottesche nella galleria sociologica dell'omologazione. Resta chiaro, alla fine di ogni analisi, che il potere non parla un linguaggio femminile, e i risultati che abbiamo di fronte, se solo volgiamo lo sguardo limitandoci all'Occidente, non sono rassicuranti, specialmente se le donne cominciano a popolare i luoghi decisionali senza un robusto bagaglio di pensiero critico. Ma alcune, sia tra quelle che vogliono tenersi a distanza dalle sue emanazioni, sia tra quelle che invece vogliono cimentarsi con le forme di potere alle quali possono arrivare, in questi ultimi quattro decenni costellati dalla rivoluzione femminista hanno prodotto, spesso inascoltate, alcune riflessioni forti e costruito pratiche alternative al potere che avevano dinnanzi, parole diverse per dirlo, pratiche e fatti dissonanti per risolvere i problemi e i conflitti. In particolare ha colpito, nel recente fecondo dibattito sull'intreccio tra politica teorica e ricerca concreta di alternative per fermare la guerra e il terrorismo, la frase di una poeta attivista femminista nordamericana, Audre Lord, secondo la quale "non possiamo smantellare la casa del padrone coni suoi attrezzi". Ossia chi vuole cambiare il mondo non puo' sperare di farlo davvero usando gli stessi mezzi adoperati dal potere che si vuole modificare. Una evidente messa in discussione dell'assunto, largamente condiviso anche nelle ideologie rivoluzionarie, che il fine giustifichi i mezzi. Che ne pensano le donne che si confrontano con il potere e che nel loro percorso pongono attenzione alla differenza di genere? Iniziamo un viaggio tra le diversita' di pratiche e di pensiero di alcune. La prima a rispondere e' Lisa Clark, attiva nei Beati i costruttori di pace, nelle Rete Lilliput e una delle organizzatrici del Social forum di Firenze. A lei, e alle interlocutrici che seguiranno, come prima domanda proponiamo una riflessione proprio a partire dalla suggestione di Audre Lord. * - Monica Lanfranco: Non possiamo smantellare la casa del padrone con i suoi attrezzi: sei d'accordo? - Lisa Clark: Rilancio con un'altra citazione: "Rispondere alla violenza con la violenza significa rendere ancora piu' buia una notte gia' priva di stelle" (Martin Luther King). Come vedi non interpreto Lord in chiave femminista ma sul piano della nonviolenza. Che si applica non solo nel quadro delle violenze flagranti (guerre e terrorismi), ma anche nelle violenze strutturali. Rispondere ai soprusi con la stessa moneta significa tentare di risolvere il conflitto sul piano della forza invece che su quello della giustizia, del diritto. E alla fine e' inevitabile la sostituzione di un'oppressione con il suo opposto, immagine speculare. Il tentativo di rompere gli schemi, usando altri attrezzi, cela in se' anche un altro aspetto, sconosciuto alle violenze varie: il rifiuto del concetto di nemico. Lotto contro l'ingiustizia, non contro chi ne e' responsabile. Nel lottare contro l'oppressione, devo far capire all'oppressore che nella mia liberta' sta anche la sua liberta'. Far capire al padrone che gli si vuol bene: nello smantellare la sua casa fondata sull'oppressione, sara' liberato anche lui. * - Monica Lanfranco: Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell'agire maschile. Dove sta il problema: nella politica o nelle donne? - Lisa Clark: Le donne che si sono adattate al sistema di potere maschile: Golda Meir e' il classico! Il problema, credo, sta nel non contrastare le strutture violente, di dominio, ma cercare di rimanervi dentro, anche con le migliori intenzioni "riformatrici". Dibattito quanto mai attuale. Non credo che la attuali strutture economiche internazionali siano riformabili, perche' proprio le premesse sono marce. Si fondano sulla nozione che sia accettabile una struttura fondata sulla disuguaglianza, sul privilegio di alcuni. Non credo che sia possibile un immediato cambiamento che risolva tutte le ingiustizie (c'e' sempre il pericolo di sacrificare i fini ai mezzi, come infinite rivoluzioni fallite dimostrano), ma cercare solo di mettere una toppa qua e la' senza sfidare il sistema e' uno sforzo destinato al fallimento (anche se alcuni sono davvero ben intenzionati). E' come affrontare una terribile situazione di guerra, portando da mangiare (gli aiuti umanitari) alle vittime civili. Se volessi essere proprio cinica, direi che si tratta solo di prolungare l'agonia! Invece, lo sforzo di cambiare le premesse (gli attrezzi), anche se non portera' certo subito a rimediare a tutte le ingiustizie, e' l'unica strada. E' la strada che ti permette di allargare la consapevolezza. Ho fiducia nel fatto che gli esseri umani non sono per natura oppressori: quando capiscono, cambiano. * - Monica Lanfranco: Si puo' cambiare la politica, e il mondo, senza prendere il potere? - Lisa Clark: Cos'e' il potere? Se e' la poltrona, l'auto blu, l'onorificenza: ancora la stessa risposta. Il potere deve risiedere altrove, nella partecipazione delle persone alla vita politica, nella riduzione della delega, in una rappresentanza continuamente verificata, rinnovata, senza aver paura di divergenze di opinione, che sono il sale della politica vera. * - Monica Lanfranco: Quali possono essere gli alleati, e quali invece i peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualita' della politica per le donne? - Lisa Clark: Il peggior ostacolo: chi ti continua a ripetere che le cose sono sempre state cosi', da che mondo e' mondo. I migliori alleati: i bambini con la freschezza delle loro idee e la loro innata sete di giustizia (prima che li corrompano). * - Monica Lanfranco: Sei arrivata ad una posizione di primo piano nella politica, e puoi scegliere cosa fare: le tue cinque prime azioni da realizzare subito. - Lisa Clark: Primo: un Ministero per il disarmo, che si occupi non solo di smantellamento di armi, di riconversione della produzione bellica, ma di "disarmare" la coscienza collettiva, facendo capire che la miglior difesa sta nel non aver nemici (Gandhi) e non nell'armarsi fino ai denti. Secondo: cambierei orizzonte alla politica estera: non piu' come referente prioritario i paesi ricchi (Usa ecc.) o emergenti (Cina ecc.), ma i popoli impoveriti. Terzo: insegnerei la storia dal punto di vista dei popoli, non piu' come l'elenco delle guerre (con date e nomi di re, generali e presidenti), insomma nominerei Lidia Menapace ministro della pubblica istruzione. Quarto (so di essere controcorrente) istituirei un servizio civile nazionale obbligatorio e retribuito, per far girare il mondo a tutte/i le/i giovani. Costruire reti di solidarieta' tra i popoli: ecco gli attrezzi giusti. Quinto: non ho detto niente sulle donne. Non imporrei quote (35 o 50% donne), perche' se avessimo davvero cominciato a ragionare secondo queste premesse (attrezzi) nuove, non ce ne sarebbe bisogno. 7. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 8. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta@sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it, luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info@peacelink.it |