Bollettino Quotidiano della Pace |
Pubblicata in data 9/9/2005 Sommario di questo numero: 1. Francesco Comina: Una proposta 2. Peppe Sini: Per padre Pintacuda 3. Alexandra Poolos: La politica delle donne. In Ruanda 4. Danilo Zolo: La sindrome 5. Maria G. Di Rienzo: Riduzione del rischio e fattori protettivi. Piani e tecniche dell'azione sociale 6. Monica Lanfranco colloquia con Monica Di Sisto sulle donne e il potere 7. Wolfgang Sachs: Ecologia e sviluppo. Il salmone e la zanzara 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. FRANCESCO COMINA: UNA PROPOSTA [Da Francesco Comina (f.comina@ladige.it) riceviamo e diffondiamo la seguente proposta, cui la redazione tutta si associa: attendiamo interventi. Francesco Comina, giornalista e saggista, pacifista nonviolento, e' impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a Bolzano nel 1967, laureatosi con una tesi su Raimon (Raimundo) Panikkar, collabora a varie riviste. Opere di Francesco Comina: Non giuro a Hitler, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000; (con Marcelo Barros), Il sapore della liberta', La meridiana, Molfetta (Ba) 2005; ha contribuito al libro di AA. VV., Le periferie della memoria, Anppia - Movimento Nonviolento, Torino-Verona; e a AA. VV., Giubileo purificato, Emi, Bologna. Per sostenere la campagna per il "si'" al referendum brasiliano per vietare il commercio delle armi, si puo' contattare Francesco Comina in Italia (e-mail: f.comina@ladige.it) e padre Ermanno Allegri in Brasile (e-mail: ermanno@adital.com.br, sito: www.adital.com.br), si visiti anche l'utilissimo sito: www.referendosim.com.br] Nel sito della campagna brasiliana per il si' al referendum che si terra' il 23 ottobre per proibire il commercio delle armi da fuoco e delle munizioni (www.referendosim.com.br) tra molte notizie e materiali di lavoro assai utili (compreso un intero libro scaricabile in pdf) vi sono dichiarazioni di artisti, musicisti, scrittori, filosofi e intellettuali famosi in Brasile che hanno messo il loro impegno per sostenere il referendum. Forse sarebbe interessare fare altrettanto qui in Italia, cioe' raccogliere e diffondere ogni giorno dichiarazioni di persone amiche per sostenere il referendum brasiliano... 2. LUTTI. PEPPE SINI: PER PADRE PINTACUDA [Padre Ennio Pintacuda, gesuita, teologo, nato a Prizzi (Palermo) nel 1933, laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, studi di teologia alla Gregoriana a Roma, e specializzazione in sociologia alla New York University, dal 1968 docente e ricercatore sociale a Palermo, tra gli animatori del movimento cattolico democratico e tra i protagonisti dell'esperienza antimafia della "primavera di Palermo", e' deceduto alcuni giorni fa. Tra le opere di Ennio Pintacuda: Breve corso di politica, Rizzoli, Milano 1988; La scelta, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1993. Opere su Ennio Pintacuda: Pierluigi Diaco, Andrea Scrosati (a cura di), Padre Ennio Pintacuda. Un prete e la politica, Bonanno, Acireale 1992] Come e' strana l'Italia: un paese di cialtroni sentimentali che pero' talvolta nei momenti peggiori trovano il cuore e la tigna di mettersi la camicia rossa e seguir Garibaldi, di mettersi il fazzoletto al collo e salire in montagna per ricacciare il nazismo all'inferno. Cosi' fu l'esperienza del movimento antimafia negli anni tra l'omicidio del generale Dalla Chiesa e quello del giudice Borsellino, e delle donne e degli uomini che con loro caddero. Si', c'e' stato un tempo in questo paese in cui ancora una volta donne e uomini di volonta' buona, provenienti da storie e culture diverse e che potevano sembrare fin incompatibili, insorsero insieme in difesa del diritto di tutti a vivere, in difesa della convivenza civile, di un paese libero e di un ordinamento fondato sul diritto e sul rispetto dell'umana dignita': si', in difesa dello stato di diritto ed insieme dell'internazionale futura umannita', e insieme del rego dei cieli che deve cominciare sulla terra, e insieme ripetendo l'appello e il grido di battaglia che fu di Cervantes e di Sofocle, e di Leopardi e di Hannah Arendt, e di Virginia Woolf e di Primo Levi. Sembrano passati mille anni e invece e' appena ier l'altro. In quegli anni preti e mangiapreti, carabinieri e rivoluzionari, ufficiali e pacifisti, magistrati e saltafossi, professionisti e sottoproletari, imprenditori e sindacalisti, si trovarono a lottare spalla a spalla sulla stessa barricata. * Quel movimento di liberazione, che pure alcune ottenne vittorie grandi, fu poi sconfitto. Sappiamo. Molti dei migliori tra noi furono uccisi. Come potremmo dimenticare i crateri delle bombe, il sangue per le strade? Ma di quelli che ancora vivono molti non hanno ceduto, non hanno voluto tradire i compagni assassinati, non hanno voluto arrendersi al male. Non sono, non siamo sconfitti. E coloro tra noi che godono della protezione e dei privilegi della loro appartenenza alla classe dominante proseguono talora nel corso degli onori, nelle carriere e nelle professioni: e ne siamo felici per loro - sappiamo che sarebbero una buona classe dirigente di un paese che fosse una repubblica. Altri che di privilegi e protezioni non ne avevano, o le navi preferirono bruciare, conducono sovente una vita stentata, e orgogliosa, come quella degli eroi anarchici della repubblica spagnola di cui Hans Magnus Enzensberger che li incontro' esuli trentatre anni dopo pote' scrivere: "la loro dignita' e' quella di gente che non ha mai capitolato. Non devono ringraziare nessuno... Non hanno ricevuto nulla, non hanno consumato alcuna sovvenzione. Sono incorruttibili. La loro coscienza e' intatta": e anche per loro siamo felici. E il loro orgoglio e' il nostro. * In quel tempo padre Ennio Pintacuda fu una delle persone che seppero chiamare alla lotta. "Con la roccia di questo patto / giurato fra uomini liberi / che volontari si adunarono / per dignita' non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo", come recita quella lapide dettata da Piero Calamandrei. Qui gli rendiamo omaggio, e ne piangiamo il decesso, e lo ringraziamo ancora. 3. MONDO. ALEXANDRA POOLOS: LA POLITICA DELLE DONNE. IN RUANDA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per averci messo a disposizione nella sua traduzione il seguente articolo di Alexandra Poolos. Alexandra Poolos e' fra le editrici di "Women News", ha lavorato per Radio Free Europe, il "Wall Street Journal" e "Newsday"; insegna alla facolta' di giornalismo della Columbia University] Gisozi, Ruanda. La governatrice Marie Izabilza siede composta sul pavimento sporco di una stanza di cemento, nell'impoverito sobborgo di Kigali. Il suo viso rotondo e' contratto dalla concentrazione. Di fronte a lei una dozzina di giovani ruandesi, orfani di guerra, parlano delle loro preoccupazioni. "E' difficile per me restare a scuola", dice Josephina Ndushamazina, che ha 25 anni e deve camminare cinque ore per raggiungere la scuola media che frequenta, "Ho vissuto molto male, ero una bambina di strada, e non ho soldi per pagare le tasse scolastiche e i trasporti. Quando ho soldi, li uso per mangiare". "Anche se vado a scuola, non riesco a prestare attenzione alle lezioni", aggiunge Delanoe Nyagatarie, ventunenne, "Non e' solo il fatto che ho fame. E' che continuo a pensare a cosa fare per i miei cinque fratelli e sorelle". La governatrice Izabilza annuisce ascoltando ogni richiesta, che si tratti di continuare la scuola, di trovare un lavoro, di avere del cibo o cure sanitarie. Recentemente eletta governatrice di questa provincia che conta diverse migliaia di abitanti, sta incontrando un gruppo di ragazzi e ragazze i cui genitori sono stati uccisi nel genocidio del 1994. Da allora, hanno vissuto dovendo contare per lo piu' su se stessi, facendo anche da padri e madri ai loro fratelli minori. In risposta alle loro domande, Izabilza comincia un brainstorming. Dalla contabilita' provinciale puo' ricavare qualche borsa di studio; costruire una nuova scuola nella provincia darebbe anche lavoro a molti degli orfani; a tutti loro garantisce assistenza sanitaria e chiede che si rechino nelle cliniche per una visita di base. "Da quando sono governatrice, dice, la gente e' contenta di me. Per la maggior parte del tempo sono in giro a chiedere che problemi hanno e con loro tento di arrivare a delle soluzioni". * Izabilza ed altre come lei sono parte della nuova ondate di donne politiche che lavorano a livello locale in Ruanda, una nazione che si sta ancora riprendendo da un genocidio che provoco' 800.000 morti in cento giorni. Le donne in Ruanda detengono il 49% dei seggi alla Camera, la piu' ampia percentuale di donne in Parlamento del mondo intero. Numerose fanno parte del governo, inclusa la Ministra della Giustizia. Una donna e' a capo della polizia e un'altra donna guida la Commissione nazionale per la riconciliazione. Ora, coloro che hanno raggiunto questi livelli, stanno premendo per avere piu' donne leader nei governi locali: vogliono raggiungere le altre donne in tutto il paese, ed istruirle affinche' si presentino alle elezioni amministrative il prossimo anno. * Marte Sabre, presidente del Comitato delle donne ruandesi che ha sede a Kigali, e' fra queste. Vuole avere piu' politiche come Izabilza. "Normalmente, dice, nella nostra cultura si suppone che una donna debba essere timida. Questa e' una barriera, perche' non puoi guidare nessuno se non hai fiducia in te stessa". Per costruire tale senso di fiducia, Marte Sabre conduce seminari in tutto il paese, e insegna le tecniche efficaci per le campagne elettorali ed i rapporti con i media. "Le donne hanno ancora tutto il carico delle responsabilita' familiari, soffrono il peso degli stereotipi di genere per cui l'uomo e' visto come il capo della famiglia, e inoltre la violenza domestica e' un vero e serio problema in Ruanda", aggiunge. Le donne politiche ruandesi sono assai consapevoli dell'importanza del discoorso di genere per gli umini e nei seminari vengono incoraggiate a gestire le preoccupazioni maschili. "Se dimentichi gli uomini, non risolvi i problemi reali della societa'", dice ancora Sabre, "Noi istruiamo le donne, ma vengono istruite proprio ad occuparsi di tutti". * Prima del genocidio, circa il 10% delle donne in Ruanda era alfabetizzata. Oggi le donne con un titolo di studio sono oltre il 50%. Un altro grande cambiamento si e' determinato con la legge del 1999, che permette la trasmissione ereditaria delle proprieta' familiari anche per via femminile. "La vita delle donne qui si e' trasformata", dice Elizabeth Powley, direttrice dell'ufficio ruandese di Women Waging Peace, "Sono assai consce del momento storico e del loro posto nel mondo, e sono pronte ad affrontare le sfide che hanno davanti". Il prossimo passo, secondo Powley, consiste nel trasformare i numeri in un'influenza reale, che migliori le vite delle donne. * Numerose questioni rimangono sul tappeto: un terzo delle famiglie del paese e' retto da vedove od orfani di guerra; il tasso di mortalita' materna e' uno dei piu' alti del mondo; l'aids ha fatto scendere l'aspettativa di vita di una donna dai 45 anni del 1990 ai 39 del 2003: il 13% dei ruandesi fra i 15 e i 49 anni e' sieropositivo. L'agricoltura genera il 90% della ricchezza del paese, e sono in stragrande maggioranza le donne a lavorare i campi. Molte di esse soffrono ancora dei traumi conseguenti alla guerra e al genocidio: sono state stuprate, hanno subito violenze fisiche, hanno visto morire i propri cari. Sono tutti problemi che donne come Aime Barihuta, vicegovernatrice della provincia di Gitarama, sono ansiose di risolvere. Mi dice che l'aids e' il piu' grande problema del suo distretto e che sta favorendo l'informazione sanitaria fra le donne. Ma il suo progetto principale e' l'istruzione per le bambine, che lei vede come il modo a lungo termine per eliminare il problema e creare prospettive economiche per le donne. "La questione chiave e' la poverta', sostiene Barihuta, Dietro alla poverta' vengono tutti i problemi sociali". Incoraggiate dalla vicegovernatrice, molte famiglie hanno cominciato a mandare a scuola le bambine. Barihuta, che si ripresentera' alle elezioni nel 2006, dice di essere fermamente legata al suo impegno politico. "Se saro' ancora viva, continuero' il lavoro e portero' a termine cio' che ho iniziato". 4. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: LA SINDROME [Dal quotidiano "Il manifesto" del 7 settembre 2005. Danilo Zolo, illustre giurista, nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, e' docente di filosofia e sociologia del diritto all'Universita' di Firenze. Tra le opere di Danilo Zolo segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976; Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995; Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000; Globalizzazione: una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2004] Anche il ministro Pisanu, da molti celebrato per la sua moderazione "democristiana", sembra ormai contagiato dalla sindrome... Per sconfiggere il terrorismo internazionale e' necessaria una lotta senza quartiere contro il mondo islamico. Occorre usare ogni possibile strumento di repressione e non andare troppo per il sottile quanto ai diritti delle persone. Si tratta di un'autentica allucinazione politica, sostanzialmente autolesionista, poiche' chiude gli occhi di fronte alle motivazioni profonde del terrorismo e si produce in arroganti provocazioni e istigazioni all'odio e alla violenza. Ignora la potenza e la lucidita' strategica delle organizzazioni terroristiche e si accanisce ottusamente contro persone inermi. Si illude di garantire la sicurezza degli italiani perseguitando esponenti del mondo islamico, soltanto perche' impegnati nel proselitismo o perche' fautori della liberazione dei paesi islamici dalla violenza e dalla oppressione dalle armate occidentali. Il caso dell'espulsione dell'imam torinese Bouiriqi Bouchta, deciso ieri dal ministero degli interni, rientra in questa tipologia paranoica. L'iman Bouchta e' una personalita' ben nota in Italia, che ha sempre testimoniato pubblicamente la sua fede e le sue convinzioni politiche, persino partecipando a trasmissioni televisive di rilievo e di legittimita' piu' che parlamentare, come "Porta a Porta" di Bruno Vespa. Opinioni radicali e opinabili, certo, ma del tutto legittime in un paese democratico. Ora, all'improvviso, l'imam viene cacciato dall'Italia, dove viveva e lavorava da anni. Viene espulso con provvedimento amministrativo senza che gli venga imputato alcun crimine o alcuna attivita' che possa esser interpretata come pericolosa per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. La motivazione e': proselitismo e vicinanza ad ambienti radicali. Una motivazione cosi' indeterminata da essere niente piu' che una legalizzazione dell'arbitrio repressivo, poiche' consente la limitazione della liberta' personale sulla base di semplici indizi o di indagini di intelligence destinate a restare segrete e insindacabili. Si tratta di una motivazione che e' stata legittimata dai recenti provvedimenti varati dal governo Berlusconi in tema di lotta contro il terrorismo: il famigerato "pacchetto Pisanu", appunto. Con questi provvedimenti non solo e' stata introdotta una serie di misure lesive di diritti di liberta' e della privacy degli italiani, ma si sono sottoposti gli stranieri a piu' pesanti discriminazioni. Si sono dilatate le ipotesi di espulsione e si e' di fatto cancellata anche la competenza della magistratura amministrativa: qualsiasi provvedimento del Tar non avra' l'effetto di sospendere l'espulsione dello straniero e passeranno anni prima che egli possa ottenere giustizia, se mai l'otterra'. Prosegue dunque l'erosione degli istituti piu' delicati dello stato di diritto. I risultati sono sempre piu' paradossali e allarmanti. E' paradossale ritenere che uno straniero colluso con il terrorismo internazionale cessi di rappresentare un pericolo solo perche' collocato fuori dai confini italiani. E' sempre piu' allarmante l'affermarsi di una concezione inquisitoria e poliziesca della sicurezza, che trasforma il sospetto in atto di accusa e colpisce l'integrita' delle persone senza minimamente preoccuparsi di provarne l'offensivita' e pericolosita' sociale. Questa non e' sicuramente la strada che porta alla pace, ne' alla chiusura delle "porte dell'Inferno" che l'aggressione all'Iraq ha tragicamente spalancato. 5. FORMAZIONE. MARIA G. DI RIENZO: RIDUZIONE DEL RISCHIO E FATTORI PROTETTIVI. PIANI E TECNICHE DELL'AZIONE SOCIALE [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59@libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza; e' coautrice dell'importante libro: Monica Lanfranco, Maria G. Di Rienzo (a cura di), Donne disarmanti, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003] Molti gruppi di attivisti hanno gia' scoperto che programmi efficaci per il cambiamento sociale lavorano contemporaneamente sulla riduzione del rischio e sulla creazione di fattori protettivi. "Riduzione del rischio" significa trovare quali fattori, nella comunita' o nella zona in questione, conducono al problema di cui vi state occupando, e lavorare per ridurli. I "fattori protettivi" sono invece quelle cose che impediscono al problema di investire altre persone, altre aree, eccetera. Esempio: rischi e protezioni relativi alla presenza di violenza generalizzata in una comunita'. Fattori di rischio: deprivazione economica, comunita' alienata e disorganizzata, norme sociali che permettono o incoraggiano la violenza, alto tasso di mobilita' e trasferimenti, presenza di attivita' criminali (spaccio, sfruttamento della prostituzione, ecc.). Fattori protettivi: impieghi stabili e giustamente remunerati, legami positivi fra individui e comunita', norme sociali che stigmatizzano la violenza, presenza di gruppi organizzati per il cambiamento, creazione di nuovi modelli/ruoli sociali positivi. Sembra, a questo punto, che si tratti solo di ridurre i primi e di incrementare i secondi, ma la faccenda non e' cosi' semplice: prima di agire dovete scegliere il vostro piano e le tecniche specifiche che lo condurranno a compimento. * 1. Che differenza c'e' fra un piano e una tecnica? Un piano e' il grande passo che si compie all'inizio per raggiungere uno scopo qualsiasi, le tecniche sono i singoli atti diretti a implementarlo. Non suona chiarissimo? Va bene, proviamo a vederlo all'opera in un contesto diverso dall'attivismo. Pamela, laureanda, e' innamorata di Onofrio, un giovane impiegato all'universita'. Onofrio e' simpatico, creativo e stravagante, una persona che apprezza le cose originali e nuove. Il piano di Pamela e' corteggiarlo dapprima con gesti appunto un po' stravaganti e poi dichiarare il suo amore in maniera romantica. Piano di Pamela: a) Corteggiare Onofrio con azioni originali. Le tecniche per questo: Pamela regala ad Onofrio una cassetta con le registrazioni delle sue canzoni preferite; gli manda un fascio di gigli d'acqua perche' sa che questi fiori hanno per lui un significato particolare; gli offre una torta preparata da lei stessa su cui sta scritto con la glassa: "Dolce come te"; improvvisa una serenata sotto la finestra di lui (Pamela suona il violino). b) Dichiarare il suo amore in maniera romantica. Le tecniche per questo: una cena a lume di candela, una lettera poetica, una telefonata tenera, eccetera. So bene che l'esempio e' sciocco, ma quando avrete finito di strabuzzare gli occhi dovreste essere capaci di discernere la differenza fra un piano e una tecnica. * 2. Come si scelgono le tecniche per la riduzione del rischio? Deciderle non e' una cosa che potete fare completamente da soli. Sebbene il vostro gruppo possa avere delle idee grandiose, e' importante includere nella progettazione altri membri della comunita': ad esempio persone che possono portarvi sostegno grazie alle loro particolari abilita' in un settore, e persone che stanno facendo esperienza diretta del problema. Di solito, questo e' l'approccio che funziona meglio. Includere altre persone nel processo e' consigliabile perche': a) puo' aiutare a cambiare i valori e le norme della comunita', che molto spesso hanno legami con i fattori di rischio e quelli protettivi. Se voi state tentando di convincere delle persone a cambiare il loro comportamento, incontrare dette persone e' fondamentale. Inoltre, farlo tende a creare nel tempo una vasta base di sostegno al vostro piano, composta da gruppi e persone diverse. b) vi dara' maggior comprensione di quali risorse siano disponibili nella comunita', comprese quelle istituzionali con cui e' sempre consigliabile tentare un approccio, e assai positivo stringere un legame (incrementa le possibilita' di riuscita). * 3. Chi dovremmo contattare? Questo dipende molto dal tipo di problema di cui intendete occuparvi. Se teniamo fermo l'esempio precedente, ovvero una comunita' in cui la violenza fra persone e' un grosso problema, prenderete contatto con: vigili, vigili di quartiere, polizia; figure di rilievo nell'ambito religioso/culturale; amministrazione comunale; presidi, insegnanti, direttori, rappresentanti dei genitori di scuole presenti nell'area; gruppi e comitati locali per i diritti umani; chiunque si senta o sia affetto direttamente dal problema. Questi ultimi sono il "segmento chiave", ovvero coloro che voi intendete servire nel processo che metterete in moto, e vanno inclusi nella progettazione del processo stesso qualsiasi sia l'istanza in gioco. Chiedere il loro impegno e valutarlo e' efficace sotto molto punti di vista: contribuisce a stabilire la verita' di cio' che sta accadendo ed a ricostruire la fiducia sul lavorare insieme (molte comunita' che vivono gravi problemi hanno scarsa fiducia nel futuro, nelle istituzioni, ed anche nei gruppi come il vostro); porta alla luce numerose risorse che non erano state precedentemente considerate: le persone hanno spesso piu' forza e capacita' di rispondere alle crisi di quanto crediamo; da' al vostro gruppo una miglior comprensione di cio' che la comunita' e', e di cio' di cui ha bisogno; aumenta la consapevolezza attorno a chi voi siete e a cio' che volete fare. * 4. Elaborare le tecniche Dopo aver identificato i fattori di rischio e quelli di protezione, siete pronti per elaborare le vostre tecniche. Cominciate con il trarre vantaggio dalle informazioni che gia' esistono: la comunita' di cui vi occupate ha una storia che dovete conoscere. La vostra iniziativa, o qualcosa di simile, e' gia' stata tentata in passato? Anche un tentativo fallito ha informazioni da offrire. Cercate e contattate gruppi simili al vostro (con la stessa "missione") e stabilite con loro un rapporto di scambio d'informazioni e mutuo sostegno; questo si puo' fare partecipando alle loro conferenze o seminari, coinvolgendo il vostro gruppo in una "rete" nazionale, iscrivendovi ad una mailing list. Solo una parola di prudenza: fate attenzione, perche' non e' detto che cio' che ha funzionato in un'altra citta' funzionera' nella vostra (metropoli e piccoli centri hanno ad esempio percezioni differenti delle relazioni tra persone). Anche quando prendete in prestito una tecnica da un'altra fonte, non abbiate timore di alterarla per adattarla alla vostra situazione, e sentitevi liberi di sbrigliare la vostra creativita'. Poiche' conoscete la vostra comunita', probabilmente avete gia' un'idea di cosa funzionerebbe e cosa no. Chiedetevi: la tecnica scelta ridurra' il rischio e/o aumentera' i fattori protettivi? E' in grado di raggiungere le persone che sperimentano il problema? E' stata disegnata in modo che la sua efficacia possa essere valutata? * 5. Mettersi all'opera Generalmente, le tecniche possono essere divise in due gruppi: quelle che intendono promuovere cambiamenti nei comportamenti individuali, e quelle che sono correlate all'organizzazione ed allo sviluppo della comunita'. Le prime includono incentivi o disincentivi a comportarsi in uno specifico modo (per esempio si premiano con una tariffa piu' bassa sull'asporto dei rifiuti le persone che differenziano la raccolta); l'offerta di sostegno (interventi educativi nei gruppi, ricerca di risorse o miglior informazione rispetto alle risorse esistenti, rimozione delle barriere che impediscono di fruire di programmi gia' in atto, ecc.); seminari e convegni tesi a creare e modellare nuovi tipi di comportamento e a promuovere speciali abilita' rispetto al problema. Le seconde includono le campagne di informazione (dai manifesti murali agli interventi sui media); la costruzione di coalizioni con altri gruppi presenti nella comunita'; l'aspetto legislativo (l'applicazione di leggi vigenti o la richiesta di nuove leggi); la tutela di persone in pericolo (rifugi per le donne vittime di violenza, assistenza legale); l'azione diretta nonviolenta. 6. RIFLESSIONE. MONICA LANFRANCO COLLOQUIA CON MONICA DI SISTO SULLE DONNE E IL POTERE [Dal quotidiano "Liberazione" dell'8 settembre 2005. Monica Lanfranco (per contatti: mochena@village.it), giornalista professionista, nata a Genova il 19 marzo 1959, vive a Genova; collabora con le testate delle donne "DWpress" e "Il paese delle donne"; ha fondato il trimestrale "Marea"; dirige il semestrale di formazione e cultura "IT - Interpretazioni tendenziose"; dal 1988 al 1994 ha curato l'Agendaottomarzo, libro/agenda che veniva accluso in edicola con il quotidiano "l'Unita'"; collabora con il quotidiano "Liberazione", i mensili "Il Gambero Rosso" e "Cucina e Salute"; e'' socia fondatrice della societa' di formazione Chance. Nel 1988 ha scritto per l'editore PromoA Donne di sport; nel 1994 ha scritto per l'editore Solfanelli Parole per giovani donne - 18 femministe parlano alle ragazze d'oggi, ristampato in due edizioni. Per Solfanelli cura una collana di autrici di fantasy e fantascienza. Ha curato dal 1990 al 1996 l'ufficio stampa per il network europeo di donne "Women in decision making". Nel 1995 ha curato il libro Valvarenna: nonne madri figlie: un matriarcato imperfetto nelle foto di fine secolo (Microarts). Nel 1996 ha scritto con Silvia Neonato, Lotte da orbi: 1970 una rivolta (Erga): si tratta del primo testo di storia sociale e politica scritto anche in braille e disponibile in floppy disk utilizzabile anche dai non vedenti e rintracciabile anche in Internet. Nel 1996 ha scritto Storie di nascita: il segreto della partoriente (La Clessidra). E' stato pubblicato recentemente il suo libro, scritto insieme a Maria G. Di Rienzo, Donne disarmanti, Intra Moenia, Napoli 2003. Cura e conduce corsi di formazione per gruppi di donne strutturati (politici, sindacali, scolastici) sulla storia del movimento delle donne e sulla comunicazione. Monica Di Sisto, giornalista, e' impegnata in molte iniziative eco-equo-solidali. Opere di Monica Di Sisto: con Alberto Zoratti, Europa in movimento, Frilli, Genova 2002] Romana, un passato nelle associazioni cattoliche dissidenti, molto lavoro giornalistico e alcuni anni trascorsi dentro il Palazzo, quello con la "p" maiuscola, a fare da assistente ad alcune donne parlamentari di sinistra: Monica Di Sisto, che da pochi giorni si e' buttata con altri coetanei tra i trenta e i quarant'anni nella creazione di una agenzia di comunicazione e formazione sui temi del commercio equo, "Fair", e' attivista di molte campagne eco-equo-solidali, e quando le si pone la domanda d'esordio sulla quale esprimersi: "Non possiamo smantellare la casa del padrone con i suoi attrezzi", non ha dubbi: "Sono d'accordo con la Lord anche perche' sotto il tappetino di quella casa di donne ne ho viste tante, e ho visto molti uomini pulircisi i piedi prima di entrare dalla porta principale. E' un meccanismo perverso, ma poche sembrano avere la lucidita' di dirsi che e' necessario traslocare, cambiare casa, anche se a prima vista sembra una villa lussuosissima". * - Monica Lanfranco: Pur con alcune eccezioni sembra che anche le donne con le migliori intenzioni, una volta arrivate ai vertici del potere, si uniformino ad esso, diventando una fotocopia dell'agire maschile. Dove sta il problema: nella politica o nelle donne? - Monica Di Sisto: Il problema non e' nel potere, la possibilita' in quanto tale, ma nelle strutture del potere. Non puoi pensare di giocare alle tue condizioni in un contesto con regole proprie, accettate da tutti gli altri membri, e con un contesto sociale allargato alla migliore delle ipotesi complice, nella peggiore indifferente. E' illusorio e frustrante. Bisogna avere il coraggio di avocare le possibilita' in luoghi diversi, esterni ai salotti, i ristoranti, i bar, i club e le ville private dove oggi le elites della politica, dell'economia, dell'informazione concertano i loro affari, immobilizzando i luoghi della partecipazione democratica perche' li legittimino. C'e' bisogno di rigore, di trasparenza e di tanta ironia. * - Monica Lanfranco: Si puo' cambiare la politica, e il mondo, senza prendere il potere, come sostiene Halloway? - Monica Di Sisto: Siamo immersi in un potere partitico tribale, che innalza per affinita' i leaders in base a come e quanto roteano la clava. Quelli che spostano davvero le pedine nel nostro paese e nel mondo sono una ristretta consorteria, che conta sulla rassegnata impotenza di molti milioni. Eppure stiamo realmente cambiando, anche in questo momento, il micro-macro intorno a noi. Penso alle donne dei villaggi indiani che battono le multinazionali delle bollicine per assicurarsi il diritto all'acqua, o respingono la caccia al brevetto sui frutti delle loro mani, come il riso basmati, partendo dalla cure reciproca di se stesse, dei propri figli, dal loro essere comunita' accogliente ma determinata. Penso a tutte le ragazze che animano le botteghe del commercio equo, i progetti di cooperazione o le realta' del volontariato, dell'assistenza: una sapienza del fare che cambia concretamente la realta'. Penso che lentamente troveremo la forza necessaria per inceppare quel gioco di ruolo che i potenti manovrano a distanza, spingendoli ad uscire dai loro rifugi dorati. Se saremo in grado di costringerli fuori, in terreni diversi, che agiscono logiche diverse, quelle della competenza, dell'etica, della socialita' solidale, si troveranno nudi e inadeguati. Ma i nostri spazi dovranno essere realmente diversi, non semplicemente alternativi. * - Monica Lanfranco: Quali possono essere gli alleati, e quali invece i peggiori ostacoli alla realizzazione di una diversa qualita' della politica per le donne? - Monica Di Sisto: Penso che il piu' grande nemico delle donne in politica sia il sentirsi miracolate, legittimate al recinto sacro, quindi sacerdotesse fedeli del potere e delle sue logiche, ma anche il suo reciproco, ossia il confinarsi in un ghetto di politica "al femminile", con delega alla riproduzione e all'assistenza. Non basta fare lobby al femminile, sentirsi appagate del numero di seggi conquistati in Parlamento come nei consigli di amministrazione: bisogna capire insieme che cosa significa pensare e vivere oggi, confrontarsi con un'identita' femminile, maschile e altra nomadi, precarizzate, globalizzate, valorizzandone le liberta' senza nasconderne le debolezze e le ferite. La maggioranza delle donne nel nostro mondo, e sempre piu' donne anche nella nostra civile Italia, non mangiano tutti i giorni, lavorano piu' dei propri compagni ma vengono pagate peggio, non sanno leggere, vengono spesso brutalizzate, persino uccise. Come possiamo sperare in una politica diversa quando le opportunita' non sono pari neanche all'interno del nostro genere e noi stesse non sembriamo preoccuparcene? * - Monica Lanfranco: Tu hai avuto un'esperienza di frequentazione da vicino del potere, collaborando con parlamentari donne, e quindi vedendo il potere femminile in azione: che cosa hai visto? - Monica Di Sisto: Tanto lavoro, fatica, competenza, impegno, concentrati spesso nel fare e nell'intervento concreto, ma con poca capacita' di cambiare le dinamiche dei gruppi e dei corridoi del Palazzo, per non parlare dei tempi di vita e della qualita' umana delle relazioni. Sono queste le constatazioni che mi hanno spinto a tornare a tempo pieno alla professione e al movimento. Ricordo, ad esempio, la destituzione di Rosi Bindi da ministro della salute, a mio giudizio tra i pochi titolari di poltrona che hanno avuto il coraggio di sostenere conflitti con lobby e corporations, e innescare concrete azioni di riforma del sistema. Colleghe di sinistra, destra e centro, donne e uomini medico e professionisti hanno speso ore di telefonate, fax, pressioni, per far si' che venisse confermata, ma non c'e' stato nulla da fare. E' arrivato il famoso medico, sono cominciate le campagne d'immagine e le paginate di propaganda, ma la politica con la p maiuscola e' rimasta al palo. Penso in questa legislatura alla eterea ministra Prestigiacomo, che e' stata sommersa piu' volte dalle contumelie e colpita nel suo privato per poche, timide, obiezioni di coscienza e di buon senso. Questo sistema non e' riformabile dalle singole buone intenzioni, ma soltanto da un ironico, rigoroso, perseverante e autocritico assedio collettivo delle diverse forme di partecipazione, a patto che esse sviluppino davvero linguaggi e dinamiche profondamente differenti. * - Monica Lanfranco: Sei arrivata a una posizione di primo piano nella politica, e puoi scegliere cosa fare: le tue cinque prime azioni da realizzare subito. - Monica Di Sisto: Non vorrei scegliere da sola: vorrei innanzitutto capire chi prende le decisioni intorno a me e in che modo, innestando un percorso di consapevolezza piu' diffusa, di partecipazione e condivisione delle scelte politiche. Mi doterei, quello si, di strumenti conoscitivi per sostanziare un cambiamento profondo: promuoverei una mappatura delle ricchezze e delle risorse (economiche, umane, naturali) per capire come fosse possibile ridistribuire e promuovere sviluppo (o decrescita, a seconda dei casi), insieme alle persone e ai territori coinvolti. Mi piacerebbe, inoltre, innescare un'azione di ri-alfabetizzazione culturale dal basso: non si puo' abbandonare un paese in balia del piccolo schermo e poi lamentarsi della sua passivita'. Spettacoli in piazza, musica, teatro, arte e lettura nelle scuole ma anche nei luoghi di lavoro e di vita, poi un'educazione civica attiva, alla responsabilita' e alla cittadinanza, a cominciare dai quartieri e dai municipi, e una ricerca scientifica indipendente e di valore pubblico. Scommettiamo che le cose comincerebbero a cambiare davvero? 7. RIFLESSIONE. WOLFGANG SACHS: ECOLOGIA E SVILUPPO. IL SALMONE E LA ZANZARA [Dal mensile diretto da Goffredo Fofi "Lo straniero", n. 32, febbraio 2003. Wolfgang Sachs, prestigioso studioso, animatore del Wuppertal Institut, impegnato nei movimenti ambientalisti e per i diritti. Tra le opere di Wolfgang Sachs: Archeologia dello sviluppo, Macroedizioni, S. Martino di Sarsina 1992; (a cura di), Dizionario dello sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998; cfr. anche Wuppertal Institut, Futuro sostenibile, Emi, Bologna 1997. Un piu' ampio profilo di Sachs e' nel n. 119 di questo foglio] Il mondo di domani puo' essere costruito solo garantendo una cittadinanza globale. Essenziali per la cittadinanza globale sono l'acqua, il cibo, il lavoro, in altri termini e' indispensabile l'accesso alla natura che ci nutre e l'accesso alla societa' e alla comunita' nelle quali produciamo e lavoriamo. La chiara preoccupazione del movimento e' il desiderio di maggiore giustizia nel mondo, una giustizia transnazionale che possa garantire un fondamento di esistenza e dignita' per tutti, dato che ci troviamo di fronte un mondo dove questa dignita' sembra peggiorare giorno dopo giorno, facendo contestualmente aumentare l'inquietudine, l'orrore, la protesta. Detto questo, c'e' pero' qualcosa che mi inquieta: trovo che il movimento, o comunque la maggior parte di esso, abbia una concezione implicita della giustizia, come se la crisi ecologica non ci fosse stata. Si parla di giustizia come se fossimo ancora negli anni sessanta o settanta, e su "The economist" come su "Le monde diplomatique" non si trovano poi tanti articoli sull'ambiente, e quando ci sono la questione viene affrontata in termini esagerati e retorici. Mi sembra che su questo aspetto il popolo di Porto Alegre non si differenzi cosi' tanto dal popolo di Davos: entrambi non hanno ancora veramente metabolizzato il fatto che oggi la giustizia va considerata in un mondo in cui la biosfera e' limitata, entrambi non hanno pienamente assorbito una sensibilita' profonda sull'ambiente. Vorrei mettere un po' in luce perche' e per quali motivi la giustizia deve essere pensata nei termini della finitezza della biosfera, cercando anche di alludere a cio' che questo significa. Per farlo utilizzero' due piccole storie, quella del salmone e quella della zanzara, e da esse cerchero' di trarre le mie conclusioni. * La storia del salmone. Negli ultimi dieci anni i tedeschi hanno cominciato a mangiare salmone. Solo quindici anni fa il salmone non c'era, adesso ce n'e' per tutti i gusti: fresco, alla griglia, affumicato eccetera, ottanta milioni di kg all'anno. Ma non c'e' salmone in Germania, il salmone viene dalla Norvegia, dalla Scozia, dove pero' la domanda tedesca e' cosi' alta che il salmone fresco non basta, e quindi ci troviamo di fronte a un salmone che proviene dall'allevamento di massa. Come sempre, nell'allevamento di massa il problema e' il mangime, la sua provenienza. Spostiamoci allora a Cinquote, una citta' sulla costa pacifica del Peru'. A Cinquote c'e' sempre un cattivo odore nell'aria; avvicinandosi al porto si nota che il fiume ha un colore rossiccio e che c'e' sempre un gran traffico di navi in entrata e uscita. Le navi portano piccoli pesciolini in fabbriche che li trasformano in farina di pesce, e quella farina di pesce viene poi portata in Scozia e Norvegia per essere utilizzata come mangime per i salmoni degli allevamenti di massa. Sono necessari 5 kg di farina di pesce per produrre 1 kg di salmone. Cosa succede? Succede che il tedesco gode di un cibo leggero, quasi un piatto postmoderno, lasciandosi pero' alle spalle l'inquinamento, la puzza, la crisi dell'alimentazione lungo le coste dell'Ecuador e del Peru', il declino della pesca e dell'economia locale. Questo e' un esempio del funzionamento delle catene di produzione nell'era della globalizzazione, nella quale la distanza tra produttore e consumatore e' sempre piu' lunga, e lungo questa distanza costi e benefici vengono ridistribuiti. Per i tedeschi pulizia e ottimo cibo, mentre sporcizia e depressione economica si concentrano sull'altro lato della catena alimentare. * La seconda storia, quella della zanzara, riguarda il cambiamento climatico. Dodici anni fa il periodico tedesco "Der Spiegel" mostro' in copertina un'immagine in cui si vedeva la capitale della Colombia affondare fra le onde del mare. Questa e' un'immagine del cambiamento climatico del tutto errata perche' sposta l'attenzione su una catastrofe immaginaria distogliendoci dalle catastrofi silenziose e reali, le piu' insidiose. Una di queste riguarda le zanzare, che amano il cambiamento climatico e approfittano del riscaldamento della terra, e questo vale in particolar modo per quelle zanzare che portano il virus della malaria. Quando aumenta la temperatura media della terra, ci sono due conseguenze: aumenta il raggio geografico di azione di questa zanzara, e maggiore e' l'altitudine alla quale e' possibile trovarla. In breve, aumenta la diffusione della malaria. Tutto questo non riguarda un lontano futuro, ma avviene gia' oggi. Basta osservare l'incidenza della malaria sull'altopiano dell'Etiopia: mentre prima non c'era, oggi si puo' concludere che anche quell'ambiente e' divenuto ospitale per la zanzara portatrice della malaria. Gia' sappiamo che ci sono milioni di morti in piu' a causa del riscaldamento globale. Questi sono gli effetti del deterioramento ambientale, effetti non catastrofici nell'accezione di "Der Spiegel" (cioe' la nostra), ma effetti insidiosi, invisibili, che arrivano lentamente e che non si lasciano individuare. Ma chissa' che un caso di malaria la' non sia causato dai tubi di scappamento qua! Non e' possibile costruire una connessione diretta, ma sappiamo quali sono i fattori agenti. Solo per ricordarlo, la malaria non colpira' i ricchi, ma i poveri, quelli che ancora oggi sono economicamente deboli e marginalizzati. In altri termini saranno colpiti i pastori in Kenia, i pescatori del Senegal, i coltivatori di mais in Messico, non certo gli italiani che hanno la piu' alta densita' di automobili al mondo, non certo i tedeschi. Questa e' un'altra ingiustizia nel mondo. Il cambiamento climatico e' nei fatti un attacco ad altri popoli. * Queste due piccole storie raccontano una nuova situazione storica, nella quale dobbiamo fare i conti con la finitezza della biosfera. Entrambe esprimono un nuovo tipo di conflitto, quello sulle risorse intese non piu' solo come petrolio, ma come pura e semplice sussistenza, come sopravvivenza. Una prima conclusione, che mi sembra importante, e' che oggi gia' sappiamo, ce lo insegna la crisi ecologica, che i limiti biofisici della terra sono diventati visibili. Sappiamo anche che, da venticinque anni ormai, l'umanita' e' entrata in una nuova fase, dove la biosfera viene sfruttata eccessivamente. Ogni anno il sovraccarico aumenta del 20%: cio' dimostra chiaramente che oramai il degrado della biosfera e' parte integrante dell'andamento economico, e questo nonostante il fatto che i tre quarti del pianeta non abbiano ancora usufruito dei vantaggi del progresso economico. * Per questo oggi la giustizia non puo' piu' essere pensata in un'ottica sviluppista, identificata cioe' con la crescita, come si e' in fondo fatto dall'eta' dell'Illuminismo in poi. Non e' piu' possibile adottare la metafora della torta, secondo la quale, quando la torta cresce, non si deve badare alla grandezza delle fette, perche' anche le fette crescono. Secondo la vulgata liberista, la distribuzione delle fette di torta non importa fintantoche' la torta cresce, ma oggi siamo in una situazione in cui la torta non crescera' piu', e se crescera' lo fara' togliendo necessariamente qualcosa a qualcun altro. Per questo motivo credo che giustizia e limiti debbano essere considerati come un'unita'. Ponendo la questione in altri termini, diciamo che la sinistra ha sempre saputo che giustizia significa contenere l'uso del potere: oggi giustizia significa anche contenere l'uso della natura. Una volta che la biosfera si rivela limitata, una questione salta agli occhi: chi prende quanto. Conoscete certamente la famosa formula per cui il 20% della popolazione consuma l'80% delle risorse, e come questo avviene lo abbiamo mostrato con le due storie precedenti; pero' sappiamo anche, sempre usando una metodologia ecologica, che i paesi Ocse, cioe' il 25% della popolazione mondiale, utilizzano tutta la superficie biologicamente produttiva della terra. Perche' non lo vediamo? Semplice, perche' per la maggior parte si tratta di risorse fossili, ma se traduciamo "risorse fossili" in "superficie biologicamente produttiva", e questo dobbiamo farlo comunque, perche' ci saranno risorse fossili solo per qualche decennio ancora, vediamo che oggi tutta la biosfera viene occupata dai paesi Ocse. E'chiaro che da questa deduzione ne discende un'altra, immediata: non si puo' concepire la giustizia in base ai livelli di produzione e di consumo sviluppati dall'Occidente, non ha senso pensare la giustizia come se tutto il mondo potesse vivere come vivono oggi, per dire, gli italiani. Mi sembra pero' che sia il popolo di Porto Alegre che quello di Davos lavorino su questa ipotesi, quando e' manifestamente impossibile ormai affermare, come invece e' stato sempre fatto, che lo sviluppo raggiunto dall'Occidente e' "ottimale" e che tutti gli altri paesi del mondo possono raggiungere questo traguardo, che tutti i paesi che chiamiamo sottosviluppati possono puntare ai nostri stessi livelli di produzione e consumo. Non e' possibile perche' il nostro stile di produzione/consumo e' strutturalmente incapace di giustizia, perche' se estendessimo il nostro stile di benessere a tutto il mondo, sarebbe una catastrofe per tutti. Sembra che non abbiamo ancora assorbito questo semplice concetto, che andremmo tutti verso catastrofi biosferiche se tutto il mondo condividesse il nostro stile di vita. In questa direzione oggi si dirigono l'industria automobilistica, l'industria della nutrizione a base di carne, l'agricoltura industriale, ma il nostro e' un benessere incapace di giustizia. Dunque la priorita', per la ricerca della giustizia, e' quella di inventare, sperimentare, sviluppare, chiedere forme di benessere capaci di giustizia. * Qui entra in gioco l'ecologia, perche' l'ecologia e' secondo me nient'aaltro che la ricerc di un'economia leggera nell'uso delle risorse, di stili di vita leggeri, di un'arte capace di creare valore economico con input sempre minori di materiali ed energia. E' chiaro per me che l'ecologia e' diventata la condizione per la giustizia nel mondo, che senza ecologia non ci sara' giustizia nel mondo; per dirla in altro modo l'ecologia, con tanto di cappello a Wwf e Greenpeace, non e' la protezione delle balene o degli uccelli, l'ecologia e' il contributo piu' importante per garantire la cittadinanza mondiale, e' una dimensione irrinunciabile della convivenza futura, e per questo l'ecologia deve essere al centro di ogni discussione. * Concludo con una piccola riflessione sul possibile ruolo dell'Europa. Si aprono due grandi strade per il futuro. Quella che io chiamo "la strada zero", quella del business ass usual, non ha futuro: ono convinto che nei prossimi anni o decenni la crisi ecologica si fara' sentire in modo tale che il business as usual non sara' piu' praticabile. Detto questo, ci sono allora due grandi strade: una strada e' quella dell'autoritarismo ecologico; l'altra e' quella della democrazia ecologica. La questione piu' importante a mio parere e': siamo pronti a mettere in discussione il nostro modello di produzione, il nostro stile di vita? I ricchi sono pronti e capaci di cambiare, i ricchi del mondo sono capaci di ritirarsi da questo spazio ambientale occupato in modo eccessivo? Sono dunque due le strade: una e' quella che oggi viene piu' o meno rappresentata dagli Usa, che da Rio in poi, fino certamente a Johannesburg, hanno avuto una strategia abbastanza chiara: Bush padre ha detto a Rio che lo stile di vita americano era intoccabile, e questa e' anche l'attuale strategia americana, e tutto quello che e' stato fatto finora, compreso il protocollo di Kyoto e il protocollo della convenzione sulla biodiversita', puo' essere letto in questa prospettiva: mantenere e proteggere lo stile di vita e di produzione americano, scaricando il compito di rapportarsi con la finitezza della biosfera sugli altri popoli. C'e' invece un'altra strada, quella di una strategia che cerchi di produrre un'economia leggera di risorse per offrire maggiore ospitalita' agli attuali abitanti della terra e ai quattro miliardi che nei prossimi trenta anni arriveranno. C'e' un enorme ruolo per l'Europa. In minima parte l'Unione Europea lo sta gia' interpretando: basti guardare al contrasto con gli Usa in materia ambientale (protocollo di Kyoto), che ha denunciato la chiara volonta' americana di egemonia unilaterale in termini di ambiente. Ma mi sembra molto chiaro che l'Europa nei prossimi decenni deve essere spinta verso una transizione democratica, una transizione che cominci a rispettare i diritti umani nel mondo, che spinga verso un mondo che impari a vivere entro determinati limiti. Credo sia questo il messaggio per l'Europa. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti: azionenonviolenta@sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: mir@peacelink.it, luciano.benini@tin.it, sudest@iol.it, paolocand@inwind.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it; per contatti: info@peacelink.it |