Avventure di gioco con la mia Fufa
Sulla spiaggia con lo zio e la Fufa
"Ecco, prendi, prova questo".
così dicendo, mio zio mi porgeva un bastone un po più
piccolo di quello che io avevo appena lanciato alla Fufa.
"Lei te lo porta lo stesso, quella scema ti riporterebbe
anche una mezza credenza se gliela lanciassi, ma ho paura che si
faccia male ai denti o al collo".
"Va bene, dammi qua", risposi mentre tendevo le mani
ansioso verso le sue.
Era un gran bel bastone, non troppo lungo ne troppo nodoso,
levigato dal mare, nel quale aveva viaggiato chissà per quanti
giorni e dalla sabbia della battigia sulla quale si era
sicuramente strofinato un numero incredibile di volte, portato
avanti e indietro dalle onde che, alla fine, lo avevano
abbandonato al suo destino.
Lo impugnai con forza e, facendogli compiere un rapido
semicerchio dietro alla spalla destra, lo scagliai con forza
verso il mare.
Alla Fufa non era certo sfuggito il movimento: ancor prima che il
pezzo di legno si staccasse dalle mie dita, si era proiettata
come una palla di cannone lanciata a folle velocità verso la
distesa dacqua.
Vi entrava a grandi balzi tenendo la testa ben alta, per evitare
di ingoiare salate boccate di mare e per seguire con lo sguardo lalta
parabola del bastone che andava a tonfare qualche
decina di metri davanti a lei.
Quando le zampe non le bastavano più, iniziava a nuotare
sbuffando e tossendo con foga.
Mio zio rideva, lo ricordo bene, rideva sempre in quelle
occasioni:
Guardala!, diceva con ammirazione, "si vede solo
la testa e nuota come una disperata".
a volte anche la testa scompariva alla vista, sommersa da unonda
un po più grossa delle altre, ma poi riemergeva subito
tossendo fuori quello che aveva ingoiato e riprendeva
imperterrita la sua caccia nel mare.
Sembra una lontra marina, la canzonava mio zio.
Porca miseria sè brutta!, continuava, ma le
voleva un gran bene, io lo sapevo.
Era il suo cane e per lei lo avevo visto fare cose da pazzi.
Lanno prima, ad esempio, quando la Fufa era finita sotto
una macchina, un freddo sabato notte di metà gennaio, lui se lera
caricata tutta sanguinante sui sedili posteriori del suo
Centoventisette color crema ed era andato a svegliare Adolfo, il
veterinario, che abitava in campagna, a 30 chilometri di distanza.
Oppure quella volta quando era caduta nel canale di fronte alla
casa dei nonni e lui, facendosi tenere per i piedi da due uomini,
si era fatto calare dalla riva a testa in giù per prenderla e
portarla in salvo.
Era la Fufa, e noi eravamo proprio un bel trio.
Lei sapeva quando arrivava il sabato.
Questa giornata infatti io la trascorrevo dai nonni materni, mi
ci portava mio padre appena uscivo da scuola e la Fufa, quando mi
vedeva comparire sulla porta, andava in fibrillazione immaginando
il pazzo pomeriggio di corse, cacce, bagni e sabbiature che laspettava.
Poi, verso le 3 del pomeriggio, io e lei passeggiavamo furtivi
davanti allo stanzino dello zio aspettando che finisse di
rilassarsi dopo il pranzo e che si decidesse a dire:
"andiamo"?
Cavolo se andavamo, bastava aprire la porta di casa per vedere
una freccia nera catapultarsi fuori e saltare come una forsennata
attorno alla Centoventisette color crema.
Mi rilassavo sul sedile, giusto il tempo di rendermi conto che
ero felice, che non avrei voluto essere con nessun altro ed in
nessun altro posto, lo zio si accendeva un Bidi, abbassava un
poco il finestrino e metteva una cassetta di John Denver.
Il resto erano chiacchiere: parlavo sempre con lui, gli
raccontavo le mie fantasie di bambino, i giochi che mi sarebbe
piaciuto fare quel giorno, quanto lontano avrei saputo far
correre la Fufa, e lui aveva sempre una risposta per me, non
giudicava mai nulla troppo fantasioso, troppo strano.
Molto spesso era lui a parlarci, io e la Fufa lo ascoltavamo
sempre molto attentamente perché, a parer nostro, lo zio aveva
sempre qualcosa di bello da dirci.
Anche questo sabato non era diverso dagli altri: come ogni volta
le lanciavamo i bastoni, lei si gettava in mare con tutta la
determinazione che il suo istinto canino le conferiva, afferrava
la sua preda e, come ogni volta, si trovava di fronte
allo stesso insormontabile dilemma.
Noi laspettavamo in piedi sulla battigia altrettanto
determinati a prenderle il bastone per poterglielo rilanciare
nuovamente, lei desiderava che noi lo facessimo, ma non così
presto.
Doveva riguadagnare la terra ferma, ma doveva farlo in un punto
della spiaggia sufficientemente lontano dal punto in cui ci
trovavamo noi, per evitare di subire i nostri assalti, questo era
il gioco e, sia lei che noi ci divertivamo un sacco.
Ma quattro gambe, anche se non molto lunghe, avevano sempre la
meglio e la Fufa si faceva beffa delle nostre ridicole rincorse,
ci sfuggiva con facilità e poi, accorgendosi della nostra
goffaggine, tornava indietro, verso di noi, invitandoci a
prenderle il pezzo di legno, se mai ne fossimo stati capaci.
Quel sabato era come gli altri, ma la Fufa stava per vivere una
brutta esperienza e noi non lo sapevamo.
Sulla spiaggia della città dei miei nonni materni, la più larga
e pulita di tutte le spiagge dei sette lidi, quel giorno cera
un uomo con il suo cane, li aveva visti lo zio, io non ne sapevo
niente.
Dovevano essere lontanissimi ancora.
Noi passeggiavamo verso la loro direzione e loro, probabilmente,
venivano verso di noi.
Tutto si svolse nello spazio di pochi secondi: io sentii lo zio
chiamare la Fufa, dirle di venire qui, subito, e con un tono che
non ammetteva repliche.
Cosa cè zio?gli chiesi un poco preoccupato.
Lui, senza per altro guardarmi perchè troppo intento ad
osservare la Fufa, mi rispose:
Un bestione che corre da questa parte!.
Poi labbaio, uno solo, di un grosso cane.
La fufa continuava a correre girandoci intorno ed ignorando i
richiami dello zio.
Sucessivamente qualcosa di grosso e pesante, con un galoppo
fulmineo, mi sfrecciò al fianco abbattendosi con un sordo
brontolio alle mie spalle sulla Fufa.
Le acute grida di dolore della Fufa che mi tappavano lo stomaco,
mi fecero ben presto capire che il grosso bestione laveva
afferrata esattamente al centro della schiena e la scuoteva con
veemenza sulla sabbia ignorando impassibile i suoi morsi ed i
tentativi della Fufa di sfuggire a quellassalto letale.
In due salti lo zio era su di loro, dopo qualche secondo arrivava
anche il padrone dellaltro cane.
Seguì una colluttazione a quattro che a me, lasciato a qualche
metro di distanza, pareva non dover finire mai: sentivo le
bestemmie dello zio, i suoi ordini dati in comacchiese, come se
il cane assalitore potesse esserne maggiormente spaventato,
sentivo i molla, molla Viky, vuoi mollare? Molla!,
dellaltro uomo, tentativi che giudicai immediatamente
troppo blandi, ridicoli e che mi facevano desiderare di dargli
dellidiota, e di dirgli di fermare subito quel bastardo.
Soprattutto sentivo il lungo, acuto e ininterrotto urlo di dolore
della Fufa.
Ci volle un po di tempo per separare quellammasso di
pelo e latrati, ci volle laiuto di un ramo, usato come leva
fra le mandibole del bestione, ci vollero parecchi calci del suo
padrone, ci volle, almeno così sembrava a me, uninfinita
quantità di minuti prima che si spegnessero i lamenti della mia
compagna di giochi.
Poi, con la stessa rapidità con cui tutto aveva avuto inizio, la
lotta ebbe fine: viky mollò la presa e si fece tenere al
guinzaglio docilmente, non tentò più neppure una volta di
riaprire le ostilità, come se per lei il gioco fosse durato
abbastanza e fosse divenuto già noioso
La Fufa era a terra, perdeva molto sangue e, anche se avrebbe
voluto, lo zio non aveva tempo di perdersi in chiacchiere con il
padrone dellaltro cane.
è femmina? Fa sempre così?.
Frammiste alle scuse delluomo, ci sentimmo dire alle spalle
che Viky era finora sempre stata buonissima, che non aveva
mai fatto così, che voleva bene agli altri cani di solito, che,
che si, era femmina e il nome, Viky, glielo aveva dato sua figlia
e che, se volevamo, ci avrebbe accompagnati da un veterinario e
ci avrebbe pagato la visita.
Noi però non lo sentivamo, io avevo una mano sul braccio dello
Zio e sopra la mia mano, batteva una zampetta della Fufa che egli
teneva in braccio.
Camminavamo veloci verso la macchina, io gli chiedevo se si era
fatta molto male, lui non mi rispondeva, era intento a parlare a
lei, le diceva che se la sarebbe cavata, che la sera stessa
avrebbe dormito vicino alla sua stufa e che lui, come premio per
essere stata così brava, le avrebbe dato uno di quei biscottini
che tanto le piacevano e che ogni tanto, di nascosto, le
allungava la nonna.
Così andò quel sabato, la Fufa se la cavò, avrebbe dovuto
vivere ancora molti anni, fare altre 4 o 5 volte i cuccioli,
finire sotto altre due macchine.
Una sera destate di molti anni dopo, io ero a casa, ricordo
che, quel pomeriggio, io e il mio amico Zeno eravamo stati a
trovare il nostro spacciatore di video giochi, ed eravamo tornati
con le tasche gonfie di dischetti, euforici di buttarsi, ognuno
sulla propria amiga 500, per scoprirli e provarli tutti.
Continuavamo a ripeterci i titoli e ne gustavamo, ancor prima del
gioco vero, il suono pastoso e promettente del nome.
finalmente era arrivata lora di cena, ci eravamo salutati
con due poderose pacche sulle spalle e via verso casa.
Avevamo cenato entrambi con una gamba fuori della sedia, sarei
pronto a giurarci, poi ognuno di fronte al computer, la mano
dentro la tasca del giubbotto a dire:
"prima questo o questo?"
Io avevo deciso per i flipper, anche se sapevo fin da subito che
non avrei mai realizzato dei gran punteggi però mi piacevano i
suoni, mi rendevo conto che quel video game spingeva al massimo
il mio computer, ero sicuro che anche Zeno, (mi ci avrei giocato
mia madre), non avrebbe saputo resistere alla tentazione di
provare per primo il simulatore di volo, stava esultando e
giocando in fretta per vedere il maggior numero possibile di cose
da raccontarmi al telefono.
Scattai in piedi, dovevo dirgli del flipper a livelli che avevo
scoperto, dovevo dirgli che se raggiungeva un milione di punti,
si poteva passare al livello due e tutti i colori e la musica di
fondo cambiavano.
Stavo per prendere la cornetta del telefono della mia nonna Lucia
quando questo squillò, anticipandomi.
Grande Zeno! sparai nel ricevitore.
Ciao Lele, mi dissero dallaltra parte, sono
io.
Zio! Ciao! Cosè successo? E qualcosa doveva
essere successo per forza, dato che lo zio non mi rispondeva.
- Possibile che stia piangendo? - pensai subito io non sentendolo
parlare.
E morta la Fufa mi disse lo Zio.
Nessuno dei due, per un minuto buono, parlò.
Ehh disse lo zio sorridendo tristemente, Lo so
che non mi avevi mai sentito piangere.
Era vero, non lavevo mai sentito piangere.
Eppure non credevo ci volesse tanta fantasia per immaginare
qualcuno che si conosce piangere, anche se non lo si era mai
sentito prima.
Io sapevo che la Fufa era malaticcia e vecchia, ma mai mi sarei
immaginato che ella dovesse morire così all'improvviso.
Zio, mi dispiace gli risposi.
le mie parole furono le più idiote e dal suono più falso che
avessi mai sentito pronunciare.
Mi dispiaceva davvero, ma mi rendevo anche conto che il mio
dispiacere non era nulla, se confrontato al suo.
Lo zio seppellì la Fufa in un campo derba dietro alla casa
della zia Angela e dello zio Franco: quella mattina, le aveva
fatto fare il suo ultimo giro sulla Centoventisette color crema,
ma questa volta era sdraiata sul sedile posteriore, immobile, non
cera la musica country, mancava il sigaro indiano, non cerano
le mie chiacchiere, lo zio non aveva nemmeno abbassato un po
il finestrino per far uscire il fumo che non cera.
Nemmeno io cero, al mio posto, sul sedile anteriore, cera
un badile e più in giù, sulla pedanina, cera un sacco di
tela bianca.
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sabato 02 febbraio 2002 19.14.09